Sul rapporto tra giudicato in sede civile e sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo è tornata la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 15102/22 depositata il 12 maggio (15102:22). A rivolgersi alla Suprema Corte, è stato un dipendente di una scuola statale, e prima della provincia, che era stato destinatario di un decreto ingiuntivo del Ministero dell’istruzione per il recupero di un importo collegato all’anzianità di servizio. La controversia era nata dal trasferimento del dipendente dalla Provincia al MIUR: l’uomo aveva avuto ragione in due gradi di giudizio, ma la sentenza di appello era stata cassata dalla Cassazione e rigettata nel merito. Di conseguenza, l’amministrazione gli aveva richiesto gli importi erogati dallo stesso ministero. Di qui, il ricorso in Cassazione che, ad avviso del ricorrente, dovrebbe tenere conto delle sopraggiunte sentenze (in altri casi simili) della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Corte europea dei diritti dell’uomo che avevano affermato “principi contrastanti con quelli posti a base del giudicato”. La Cassazione ha respinto il ricorso precisando che, con riguardo alla Corte di giustizia e agli effetti di sentenze che sopravvengono rispetto a una decisione interna passata in giudicato, la stessa Corte di Lussemburgo ha stabilito che l’incidenza sul giudicato si verifica solo se le norme procedurali interne prevedono, a determinate condizioni, che il giudice nazionale torni sulla decisione mentre, nel caso in cui ciò non sia previsto, “il diritto dell’Unione non impone che, per tenere conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto adottata dalla Corte, un organo giurisdizionale nazionale debba necessariamente riesaminare una sua decisione che goda dell’autorità di cosa giudicata”. Di conseguenza, per la Suprema Corte, i giudici di appello hanno agito correttamente ritenendo che il giudicato non potesse essere posto in discussione dalla sentenza della Corte Ue del 6 settembre 2011 (causa C-108/10). Per quanto riguarda la violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del Protocollo n. 1 con riferimento al diritto di proprietà, la Cassazione ha precisato che, in caso di contrasto tra legge interna e disposizioni della Convenzione, non sanabile in via interpretativa, il giudice deve sollevare la questione di costituzionalità. In ogni caso – osserva la Cassazione – anche una “eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma interna lascerebbe fermo il giudicato, secondo il principio per cui la dichiarazione di incostituzionalità, pur avendo effetto retroattivo, non incide sui rapporti giuridici esauriti”. Inoltre, il codice di procedura civile non prevede la possibilità che le sentenze della Corte europea incidano sul giudicato e la stessa Consulta, con le sentenze n. 123/2017 e n. 93/2018, ha ritenuto che gli articoli 394 e 395 c.p.c. non siano in contrasto con l’art. 117 della Costituzione pur non prevedendo un mezzo di revocazione straordinaria nel caso di difformità tra una sentenza interna definitiva e una successiva sentenza della Corte europea.
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