Il silenzio che i Governi dei Paesi occidentali cercano di imporre sul caso delle extraordinary renditions è stato squarciato, ancora una volta, da due sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo depositate il 24 luglio. Si tratta delle pronunce Al Nashiri contro Polonia (CASE OF AL NASHIRI v. POLAND) e Husayn contro lo stesso Stato (CASE OF HUSAYN ABU ZUBAYDAH v. POLAND) che segnano una sconfitta per uno Stato membro non solo del Consiglio d’Europa, ma anche dell’Unione europea che, al pari di altri, ha del tutto ignorato l’obbligo di rispettare i diritti umani, aprendo la strada a forme di detenzione segrete, atti di tortura, consegna di individui presenti sul proprio territorio a Paesi in cui si pratica la pena di morte.
Nella prima vicenda, un cittadino nato in Arabia saudita, di origine yemenita, era stato accusato di aver partecipato all’attentato dell’ammiraglia Usa USS Cole e di aver avuto un ruolo nell’attacco alle torri gemelle del 2011. Era stato catturato dalle forze americane e detenuto nelle strutture detentive della Cia prima in Afghanistan e Thailandia e poi in Polonia. Qui, dopo essere stato inghiottito in un buco nero, era stato torturato, con la simulazione di due esecuzioni e poi, con un volo segreto, era stato trasferito a Guantanamo, senza che la Polonia bloccasse la consegna malgrado il rischio di trattamenti disumani e degradanti. Analogo scenario per la vicenda Husayn. Due casi di extraordinary renditions, sui quali la Polonia ha aperto un procedimento nel 2008 senza però arrivare ad alcuna conclusione processuale. L’unica speranza Strasburgo, che ha dato ragione ai ricorrenti e disegnato, nelle due sentenze fiume di oltre 200 pagine, un quadro agghiacciante sul fronte delle violazioni dei diritti umani.
Prima di tutto la Corte europea, respinte le obiezioni del Governo polacco sul mancato rispetto del previo esaurimento dei ricorsi interni, ha accertato che Varsavia non ha collaborato con i giudici internazionali, rifiutandosi di consegnare documenti utili all’accertamento delle violazioni. Questo non ha impedito alla Corte di verificare che le autorità polacche erano a conoscenza delle attività della Cia sul territorio e malgrado ciò non hanno impedito il transito nel proprio spazio aereo e lo svolgimento di atti di tortura. E’ vero, infatti, che, in termini generali, tocca al ricorrente provare la violazione della Convenzione, ma in casi come quello in esame, considerato che i fatti accaduti rientrano nella quasi esclusiva competenza del Governo, l’onere della prova ricade sullo Stato. Nel merito, la Polonia ha lasciato spazio libero agli agenti della Cia chiudendo gli occhi sulle torture perpetrate durante la permanenza nelle prigioni segrete sul proprio territorio. Di conseguenza, come ogni Stato parte alla Convenzione, è responsabile delle azioni commesse sul suo territorio che hanno conseguenze su un individuo esposto alla violazione della Convenzione. Varsavia, inoltre, ha creato le condizioni per favorire l’attività degli agenti della Cia e non ha fatto nulla per impedirle, permettendo che il ricorrente fosse trasferito fuori dalla Polonia, malgrado il rischio della pena di morte. Nessuna indagine effettiva, poi, che consentisse di accertare la verità dei fatti. E’ vero che in taluni casi possono sorgere esigenze di sicurezza nazionale, ma lo Stato deve trovare i mezzi per fornire informazioni senza compromettere la sicurezza. Inoltre, laddove vi sono casi in cui sono contestati gravi violazioni dei diritti umani, “il diritto alla verità relativo alle circostanze rilevanti del caso non appartiene solo alla vittima del reato e alla sua famiglia, ma anche alle altre vittime di situazioni simili e alla collettività che ha il diritto di sapere che cosa è accaduto”. Un’affermazione che contrasta in modo netto con l’operato degli Stati che invece mettono al primo posto il segreto di Stato, il cui carattere assoluto è evidentemente contrario alla Convenzione.
Di qui la condanna per violazione dell’articolo 3 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti), dell’articolo 5 sulla libertà personale, dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), dell’articolo 6 (equo processo), dell’articolo 13 (divieto di discriminazioni), degli articoli 2 e 3 in rapporto all’articolo 1 del Protocollo n. 6 che vieta la pena di morte, considerando, a quest’ultimo riguardo, che la Polonia non ha impedito che il ricorrente fosse trasportato a Guantanamo.
La Corte ha condannato la Polonia a indennizzare le vittime per i danni non patrimoniali subiti (100mila euro a ciascun ricorrente) e ha ordinato alla Polonia, con riguardo al ricorso Al Nashir, di adottare misure individuali ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione e fare in modo che il ricorrente non subisca la pena di morte, chiedendo assicurazioni in questo senso agli Stati Uniti.
Si veda il ricorso contro l’Italia nel caso Abu Omar (NASR AND GHALI v. ITALY e i post http://www.marinacastellaneta.it/blog/stati-uniti-poche-le-indagini-penali-sulle-renditions-perpetrate-dalla-cia.html, nonché http://www.marinacastellaneta.it/blog/no-al-segreto-di-stato-nei-casi-di-extraordinary-renditions-lo-chiede-con-forza-il-parlamento-europeo.html e http://www.marinacastellaneta.it/blog/per-la-consulta-segreto-di-stato-senza-limiti-anche-se-sono-in-ballo-violazioni-dei-diritti-umani.html
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