Per la prima volta, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia sul rispetto delle regole dell’equo processo in rapporto all’esecuzione di una sentenza straniera in base al diritto Ue con particolare riferimento al principio del mutuo riconoscimento. E lo fa con la sentenza Avotins contro Lettonia depositata il 23 maggio 2016 (CASE OF AVOTINS v. LATVIA). A rivolgersi alla Corte europea un consulente lettone che aveva firmato un atto notarile con il quale chiedeva un prestito a una società cipriota. Nell’atto era indicata come legge applicabile quella cipriota e come giudici competenti, non in via esclusiva, sempre quelli di Cipro. La società aveva così adito i giudici ciprioti che avevano riconosciuto l’obbligo del ricorrente di ripagare il debito con gli interessi. La società creditrice aveva cercato di ottenere l’esecuzione della sentenza in Lettonia, dove risiedeva il debitore, in base al regolamento n. 44/2001 sulla competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (sostituito dal regolamento n. 1215/2015). Il debitore si era inutilmente opposto. Di qui il ricorso a Strasburgo.
Chiarito che spetta alla Corte di giustizia dell’Unione europea interpretare i regolamenti Ue, Strasburgo ha però ribadito il proprio compito, anche quando è in gioco il diritto dell’Unione, in ordine all’accertamento circa la violazione dell’articolo 6 della Convenzione, che assicura il diritto a un equo processo. Gli Stati – osserva la Corte europea – sono obbligati a rispettare la Convenzione anche quando applicano il diritto Ue, tenendo conto di quanto stabilito nella sentenza Bosphorus e Michaud con le quali è stato affermato che, in linea di principio, la protezione dei diritti fondamentali assicurata dall’ordinamento dell’Unione va considerata equivalente a quella convenzionale. Il principio della presunzione della protezione equivalente dell’ordinamento Ue è sottoposto a due condizioni: l’assenza di margine di manovra delle autorità nazionali e lo sviluppo di un meccanismo di supervisione previsto dal diritto Ue. Ora, tenendo conto che nel caso in esame era in discussione l’applicazione di un regolamento che lascia poco margine di intervento agli Stati e non piuttosto una direttiva e che le condizioni di cui all’articolo 34 del regolamento 44/2001 consentono il rifiuto al riconoscimento solo a condizioni prefissate e che la Corte Suprema lettone non ha fatto altro che applicare le regole europee derivanti dalla partecipazione all’Unione, è evidente che manca un potere discrezionale di applicazione per gli Stati, con maggiori garanzie circa il rispetto dei diritti fondamentali. Tra l’altro, grazie al regolamento, è assicurata la possibilità di un procedimento dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea attraverso il rinvio pregiudiziale e se è vero che spetta al giudice nazionale effettuare il rinvio non c’è dubbio che le parti in un procedimento possono sollevare alcuni problemi dinanzi al giudice nazionale, sollecitandolo al rinvio a Lussemburgo. Così non aveva fatto il ricorrente che, per di più, non aveva sollevato, pur avendo termini di ricorso stretti, il mancato rispetto degli obblighi di notificazione, situazione che a suo dire aveva inciso sull’equo processo. Pertanto, la Grande Camera, in modo analogo alla pronuncia della Camera, respinte le doglianze del ricorrente, ritiene che non è stato violato l’articolo 6. I giudici internazionali, inoltre, hanno precisato che la costituzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia in Europa è del tutto legittimo dal punto di vista della Convenzione europea, a condizione che i metodi utilizzati non contrastino con i diritti umani fondamentali. Di conseguenza, i tribunali nazionali devono procedere a verificare che, pur applicando i meccanismi propri del regolamento Ue, i diritti convenzionali siano rispettati facendo attenzione alla circostanza che il mutuo riconoscimento non conduca a lacune nell’attuazione della Convenzione.
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