L’informazione non veritiera a un consumatore, abbonato a un servizio televisivo via cavo, sui tempi per la disdetta, è una pratica commerciale sleale. E questo anche quando l’informazione è fornita a un unico consumatore. E’ il principio stabilito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea che, con la sentenza del 16 aprile (C-388/13, consumatori), nel segno della massima tutela dei consumatori, ha stabilito un’applicazione di ampia portata della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno, recepita in Italia con Dlgs n. 146/2007. A rivolgersi agli eurogiudici è stata la Corte suprema di Budapest alle prese con una controversia tra l’Autorità ungherese per la tutela dei consumatori e una società che forniva abbonamenti via cavo. Un consumatore, che voleva disdire il suo abbonamento, aveva chiesto notizie sul periodo al quale si riferiva la fattura emessa, per far coincidere il termine dell’abbonamento con l’ultimo giorno della prestazione dei servizi già pagati. Tuttavia, a causa di una comunicazione errata sulla scadenza, la società gli aveva chiesto il pagamento degli arretrati. Di qui la vicenda giudiziaria, con l’Autorità di vigilanza dei consumatori che aveva dato ragione all’abbonato, mentre i giudici di primo e secondo grado alla società.
Di diverso avviso la Corte di giustizia la cui conclusione servirà per ogni caso di applicazione della direttiva. Chiarito che l’atto Ue si occupa delle pratiche commerciali intese come quelle di promozione, di vendita o di fornitura di un bene o di un servizio al consumatore, la Corte ha sottolineato che in questa nozione, tenendo conto della circostanza che l’obiettivo è di tutelare la parte debole, ossia il consumatore, rientrano anche le fasi di esecuzione del contratto e, quindi, l’attività post-vendita di assistenza, incluse le informazioni sugli abbonamenti. Nessun dubbio, poi, che l’informazione non veritiera sia una pratica commerciale sleale se induce il consumatore medio a una decisione che non avrebbe preso. E’ evidente che se un consumatore chiede un’informazione per esercitare il suo diritto di recesso da un abbonamento televisivo e ha un’informazione errata sulla durata del rapporto che legava i due contraenti, con la conseguenza che subisce spese aggiuntive, sono presenti gli elementi tipici per far scattare l’applicazione della direttiva. Poco importa – scrive la Corte – che l’azienda abbia tenuto il comportamento contrario alla direttiva una sola volta, interessando un unico consumatore. La direttiva, infatti, non fissa alcuna soglia con la conseguenza che la protezione offerta prescinde dal fatto che siano colpiti più consumatori o che il comportamento sia reiterato. Né è necessario dimostrare l’intenzionalità della condotta, la negligenza del professionista o il danno subito dal consumatore. Basta che l’azienda o il professionista abbia comunicato un’informazione oggettivamente errata, in grado di influenzare sfavorevolmente il consumatore, per applicare la direttiva. Solo in questo modo il consumatore, che si trova in una situazione di inferiorità soprattutto con riferimento al livello di informazione, oltre ad essere meno esperto sul piano giuridico ed economicamente più debole, può ottenere una tutela effettiva. Con l’obbligo, poi, per lo Stato di applicare sanzioni dissuasive.
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