Era chiaro a tutti che il divieto di burkini, oltre ad essere inutile, confliggeva con diversi diritti fondamentali. Lo ha poi scritto il Consiglio di Stato francese che, con ordinanza del 26 agosto, ha annullato il provvedimento del sindaco di Villeneuve-Loubet (Francia) (ricorsi riuniti n. 402742 e n. 40277, Le Conseil d’État) il quale aveva vietato, dal 15 giugno al 15 settembre 2016, l’utilizzo nelle spiagge pubbliche di un abbigliamento non rispettoso del principio di laicità dello Stato, imponendo così il divieto di burkini anche per ragioni legate alla sicurezza dei bagnanti e all’igiene. Il provvedimento, poi emulato da altri sindaci, era stato impugnato in base all’articolo 521-2 del codice di giustizia amministrativa da alcune associazioni come la Lega per i diritti dell’uomo e l’Associazione per la difesa dei diritti umani contro l’islamofobia. Il tribunale amministrativo di Nizza il 22 agosto aveva respinto il ricorso. Giudizio ribaltato dal Consiglio di Stato secondo il quale il divieto di burkini è una violazione delle libertà fondamentali, inclusa quella di coscienza e del proprio credo. Per i giudici amministrativi, i sindaci sono tenuti a garantire l’ordine pubblico, ma assicurando la tutela dei diritti dell’uomo. Pertanto, il primo cittadino può regolamentare l’accesso alle spiagge e il comportamento dei bagnanti ma solo nei limiti in cui vi siano necessità di ordine pubblico, da valutare tenendo conto delle “circostanze dei tempi e dei luoghi” e con misure proporzionali. Non è compito del sindaco, invece, fondare il provvedimento su altri motivi e apporre restrizioni non giustificate da ragioni di ordine pubblico. Nel caso in esame – osserva il Consiglio di Stato – non è stato provato alcun rischio effettivo per l’ordine pubblico e certo le restrizioni non possono avere un fondamento sulle emozioni e sulle paure suscitate dall’attentato a Nizza del 15 luglio. Di qui la conclusione che il sindaco è andato al di là dei suoi poteri adottando un’ordinanza che “è un attentato grave” alle libertà fondamentali come quella di circolazione, di coscienza e libertà personale, oltre ad essere manifestamente illegale. Pertanto, i giudici – con un provvedimento che ha avuto il plauso dell’Alto commissario per i diritti umani dell’ONU (Un) – hanno annullato l’ordinanza del tribunale di Nizza del 22 agosto e disposto, in attesa della sentenza definitiva, la sospensione dell’esecuzione dell’ordinanza del sindaco con il divieto di burkini.
Una decisione che certo verrà seguita anche in altre occasioni dal Consiglio di Stato e che si impone in realtà anche ai giudici amministrativi di primo grado chiamati a pronunciarsi su analoghi divieti di burkini, che si sono diffusi a macchia di leopardo sulle spiagge francesi.
L’ordinanza, nel giudicare la misura come sproporzionata, si allinea agli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha sempre imposto il rispetto del principio di proporzionalità, seppure con riguardo al divieto di velo islamico. Così, nei confronti della Francia, con la sentenza del 26 novembre 2015 nel caso Ebrahimian, Strasburgo ha riconosciuto la legittimità delle legislazioni nazionali che vietano di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro pubblico, non ritenendo un simile provvedimento contrario all’articolo 9 della Convenzione dei diritti dell’uomo che assicura il diritto alla libertà di religione. Con quella sentenza, la Corte europea ha riconosciuto il valore del principio di laicità dello Stato e, constatato che il divieto di ostentare segni religiosi riguardava ogni credo (garantendo il principio di uguaglianza), ha evidenziato il rispetto del principio di proporzionalità perché l’esibizione di simboli religiosi è vietata unicamente nel luogo di lavoro. La stessa Corte europea, poi, aveva richiamato l’importanza del controllo dei giudici amministrativi francesi che, in base alla legislazione interna, hanno l’obbligo di vigilare che non si verifichi una lesione sproporzionata alla libertà di coscienza.
Manca ancora una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea sul punto, anche se si assiste a una spaccatura tra gli Avvocati generali perché nel giro di pochi giorni, da un lato l’Avvocato generale Sharpston, nelle conclusioni del 13 luglio (C-188/15) ha sdoganato l’uso del velo islamico ritenendo il divieto una discriminazione diretta, incompatibile con il diritto Ue; dall’altro lato, l’Avvocato generale Kokott nelle conclusioni del 31 maggio (C-157/15) ha raggiunto una soluzione opposta dando il via libera al datore di lavoro privato che vieta ai propri dipendenti di indossare il velo islamico e altri segni religiosi visibili. Resta da vedere che soluzione darà la Corte Ue.
Aggiungi un commento