Il fattore tempo ha conseguenze irreparabili nelle relazioni familiari. Di conseguenza, è certa la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiari, se le autorità nazionali non adottano misure adeguate per sanzionare la mancata cooperazione di un genitore che impedisce all’altro una relazione affettiva con il figlio. E’ la Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo con la sentenza depositata il 4 maggio (ricorso n. 66396/14, visita) che è costata una nuova condanna all’Italia per violazione dell’articolo 8, a causa di un mix di misure inadeguate e ritardi. A rivolgersi a Strasburgo, un padre che aveva cercato inutilmente di ottenere un ampliamento del proprio diritto di visita alla figlia. Dopo la separazione, la madre della bimba aveva reso difficile i contatti dell’ex marito con la minore. Di qui la decisione del padre di rivolgersi al Tribunale di Napoli. Tuttavia, malgrado il suo ricorso urgente fosse stato depositato il 23 luglio 2011, la pronuncia era arrivata solo a novembre. Nel 2013, poi, il Tribunale per i minorenni aveva deciso l’affido condiviso con la residenza presso la casa della madre e aveva regolato le visite con il padre. Il ricorrente aveva chiesto un ampliamento dei periodi, ma la Corte di appello aveva confermato la decisione dei giudici di primo grado. Così, la scelta di rivolgersi alla Corte europea che ha dato ragione all’uomo.
Per i giudici internazionali, le autorità italiane non hanno salvaguardato il diritto alla vita familiare del padre, minando il rapporto padre/figlia, anche a causa dei troppi ritardi che hanno caratterizzato l’intero procedimento. Sul punto la Corte è chiara: è evidente che un ritardo nella procedura rischia di far diventare “fatto compiuto” il problema in discussione, mentre è necessario che le relazioni familiari tra genitori e figli siano regolate sulla base dell’insieme degli elementi pertinenti e non sul fattore tempo. Nel caso in esame, la Corte osserva che il padre non ha potuto vedere liberamente la figlia dal 2010 e le giurisdizioni interne, durante i 12 mesi di durata del procedimento, “hanno tollerato che la madre regolasse in modo unilaterale le modalità del diritto di visita del ricorrente”. Eppure – osserva la Corte – nell’adozione delle decisioni che riguardano l’articolo 8 e, quindi, il diritto al rispetto della vita familiare, si impone un supplemento di diligenza e di rapidità perché “il decorso del tempo può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra la bambina e il padre”. Un ritardo ingiustificato e contrario alla Convenzione, che è costato all’Italia una condanna e l’obbligo di corrispondere al padre 3mila euro per i danni non patrimoniali e 12mila per le spese.
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