L’impatto potenziale di una pubblicazione attraverso internet, suscettibile di ledere il diritto alla reputazione, è di più ampia portata rispetto alla diffusione tramite i mezzi tradizionali come la stampa ed è, quindi, giustificato un intervento delle autorità nazionali più incisivo. Un principio che arriva dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza depositata il 7 giugno nel caso CICAD contro Svizzera (AFFAIRE CICAD c. SUISSE). A rivolgersi a Strasburgo un’associazione svizzera, che combatte l’antisemitismo, la quale aveva pubblicato sul proprio sito internet e in una newsletter un articolo in cui accusava di antisemitismo un professore che aveva pubblicato, nel 2005, con il supporto dell’Università di Ginevra, un libro dal titolo “Israël et l’autre”. Il curatore del volume aveva agito dinanzi ai tribunali nazionali sostenendo che era stato violato il proprio diritto alla reputazione. I giudici svizzeri gli avevano dato ragione e avevano ordinato la rimozione dell’articolo dal sito dell’Associazione. Quest’ultima si è così rivolta alla Corte europea che le ha dato torto. Per Strasburgo, non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea che assicura il diritto alla libertà di espressione. E’ vero che l’articolo pubblicato sul sito conteneva un giudizio di valore, ma anche in questo caso è necessario che vi sia una base fattuale sufficiente. L’articolo riguardava questioni di interesse generale, ma era particolarmente aggressivo, definendo il testo antisemita senza che, però, vi fossero dati concreti per giustificare questo giudizio. Strasburgo, poi, nell’effettuare il bilanciamento tra i diversi diritti in gioco, mette in primo piano anche il mezzo con il quale è stato disseminato l’articolo. Il web – osservano i giudici internazionali – permette una maggiore accessibilità della collettività, ha una capacità enorme di conservazione e di diffusione di dati, facilitando l’accesso al pubblico. Basti pensare, infatti, alla possibilità, introducendo unicamente il cognome del professore nel motore di ricerca, di arrivare all’articolo. E’ evidente, quindi, che internet presenta più rischi rispetto alla stampa con riguardo alla possibilità di intaccare diritti fondamentali come il rispetto della vita privata e quello alla reputazione. Di conseguenza, l’impatto potenziale dell’accusa di antisemitismo era molto più grande rispetto a quello che poteva derivare da un articolo di stampa. Inoltre, per accertare se vi sia stata una violazione della Convenzione europea, la Corte è passata a valutare l’entità della sanzione che è stata proporzionata tenendo conto che ha avuto natura civile e non penale e che l’Associazione ricorrente è stata tenuta unicamente a rimuovere l’articolo. Senza dimenticare – prosegue la Corte – che l’Associazione ricorrente aveva pubblicato una lettera di precisazioni del docente, ma il giorno dopo aveva ribadito, in un articolo, le accuse. Considerata l’esistenza di motivi pertinenti e sufficienti, idonei a giustificare l’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione, la Corte ha respinto il ricorso, dando così ragione all’autore del libro.
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