La cyberviolenza deve essere considerata come una forma di violenza contro le donne e, di conseguenza, le autorità nazionali non possono trattare episodi come l’utilizzo abusivo degli account di una donna da parte dell’ex marito o l’acquisizione di immagini e dati come casi di violenza ordinaria, ma devono prevedere l’applicazione delle regole più stringenti fissate per i casi di violenza domestica. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza depositata l’11 febbraio nel caso Buturuga contro Romania (ricorso n. 56867/15, AFFAIRE BUTURUGA c. ROUMANIE) con la quale Strasburgo ha precisato che la violenza contro le donne non è solo quella fisica, ma include anche la violenza psicologica, nonché lo stalking e la cyberviolenza. Pertanto, dagli articoli 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 8 (diritto al rispetto della vita privata, che include quello alla riservatezza della corrispondenza) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo deriva l’obbligo positivo di adottare misure preventive e sanzionatorie nei casi in cui una donna subisca intrusioni nel proprio computer, nei profili sui social, nonché furti di dati personali intimi e immagini. A rivolgersi alla Corte è stata una cittadina rumena che aveva depositato una denuncia contro il marito per i ripetuti episodi di violenza domestica e per l’utilizzo abusivo, da parte dell’ex marito, dei suoi account, inclusa la sua pagina Facebook, l’intromissione nel computer, lo stalking via web e l’acquisizione di dati e immagini. Il procuratore aveva archiviato queste denunce perché i comportamenti dell’uomo non erano stati considerati come “particolarmente gravi”. La decisione era stata impugnata dalla donna e il tribunale di primo grado aveva disposto una misura di protezione applicabile per 6 mesi che, però, non era stata eseguita in modo effettivo.
Prima di tutto, la Corte europea ha chiarito che i casi di violenza domestica devono essere trattati in modo diverso rispetto alle altre forme di violenza, in linea con la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica adottata a Istanbul l’11 maggio 2011, in vigore dal 1° agosto 2014 (ratificata ed eseguita dall’Italia con legge n. 77 del 27 giugno 2013) e ha respinto la tesi sostenuta dalle autorità nazionali circa la non “sufficiente gravità” dei fatti e la “debolezza” nella reazione della stessa vittima che avrebbe avuto un comportamento poco diligente – anche sotto il profilo della tempistica – nella presentazione delle denunce. Per la Corte europea, infatti, le autorità nazionali non hanno considerato l’impatto psicologico di queste forme di violenza sulle donne e il senso di isolamento che spinge le vittime a ritirare le denunce. Pertanto, anche in presenza di un quadro normativo interno idoneo, per Strasburgo si verifica una violazione della Convenzione in assenza di misure effettive. Non è sufficiente, infatti, adottare un ordine di protezione se poi non è garantita l’applicazione effettiva della misura. La Corte, inoltre, ha ricordato che la cyberviolenza è riconosciuta sul piano internazionale “come un aspetto della violenza contro le donne”, come risulta dal rapporto Onu del 2015 sulla cyberviolenza contro le donne e dal documento del Gruppo di lavoro del Consiglio d’Europa relativo allo stalking sul web e alle altre forme di violenza in linea, realizzato nel 2018.
Proprio con riguardo alla violazione del profilo della donna sui social e all’acquisizione dei dati, che costituiscono una violazione anche del diritto alla riservatezza della corrispondenza, la Corte ha individuato un eccessivo formalismo da parte degli inquirenti che avrebbero dovuto considerare l’importanza di indagini su larga scala con l’obiettivo di comprendere in modo globale il fenomeno della violenza coniugale in tutte le sue forme. Di qui la condanna alla Romania.
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