Ogni persona ha un diritto soggettivo permanente e imprescrittibile allo stato di cittadino e la rinuncia tacita non fa perdere la cittadinanza italiana. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 25317 depositata il 24 agosto 2022 con la quale la Suprema Corte ha stabilito gli effetti del provvedimento della grande naturalizzazione brasiliana dei cittadini stranieri del 1889 su individui già cittadini italiani e sui loro discendenti (naturalizzazione). La vicenda aveva al centro alcuni italiani emigrati in Brasile che avevano perso la cittadinanza in conseguenza della naturalizzazione decisa dal Brasile nel 1889. Di qui la richiesta di riconoscimento iure sanguinis della cittadinanza italiana avanzata da alcuni individui discendenti in linea diretta da cittadini italiani naturalizzati. La richiesta, malgrado il via libera del Tribunale di Roma, aveva incontrato il no del Ministero degli esteri e dell’interno e la Corte di appello di Roma aveva condiviso tale conclusione. Di qui il ricorso in Cassazione.
Prima di tutto, la Suprema Corte ha ricostruito le regole esistenti a partire dal codice civile del 1865, dalla legge sulla cittadinanza n. 555 del 1912 e dalla legge n. 91 del 1992, precisando che la cittadinanza per fatto di nascita si acquista a titolo originario iure sanguinis, e “lo status di cittadino, una volta acquisito, ha natura permanente, è imprescrittibile ed è giustiziabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva integrata dalla nascita da cittadino italiano, per cui a chi richieda il riconoscimento della cittadinanza spetta di provare solo il fatto acquisitivo e la linea di trasmissione, mentre incombe alla controparte, che ne abbia fatto eccezione, la prova dell’eventuale fattispecie interruttiva”. A ciò si aggiunga – precisa la Cassazione – che la cittadinanza rientra tra i diritti fondamentali e, quindi, la circostanza che la cittadinanza italiana sia persa perché l’interessato abbia ottenuto la cittadinanza in Paese estero, richiede che vi sia stata una rinuncia espressa e non tacita, con un atto “spontaneo e volontario finalizzato all’acquisto della cittadinanza straniera”. Non è sufficiente, quindi, una rinuncia tacita o per il solo fatto di aver stabilizzato in un Paese estero la propria vita e la propria residenza. Va tenuto conto, inoltre, che dall’articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 e dal Trattato di Lisbona, come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, risulta che ogni individuo ha un diritto soggettivo permanente e imprescrittibile allo stato di cittadino, “che congloba distinti ed egualmente fondamentali diritti”.
Per quanto riguarda l’ipotesi di perdita della cittadinanza italiana a seguito dell’accettazione di un “impiego da un governo estero, senza autorizzazione del Governo italiano”, la Cassazione delimita tale possibilità ai soli casi in cui si assumano “pubbliche funzioni all’estero tali da imporre obblighi di gerarchia e fedeltà verso lo Stato straniero, di natura stabile e tendenzialmente definitiva, così da non poter essere integrata dalla mera circostanza dell’avvenuto svolgimento all’estero di una qualsivoglia attività di lavoro, pubblico o privato”. Di qui la conclusione l’accoglimento del ricorso e l’annullamento con rinvio alla Corte di appello di Roma che deciderà in diversa composizione.
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