Ingiustificati e contrari al diritto Ue gli ostacoli posti dal Consiglio nazionale forense all’iscrizione nell’elenco degli avvocati comunitari stabiliti di un cittadino italiano che, dopo la laurea in giurisprudenza in Italia, aveva ottenuto l’iscrizione nel registro degli abogados a Barcellona. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sezioni unite civili, con sentenza depositata il 22 dicembre 2011 (n. 28340/1120120104191330618), con la quale la Suprema Corte non solo ha bocciato la posizione restrittiva del Consiglio nazionale forense, ma ha chiarito l’esatta portata della direttiva 98/5/CE, sull’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica, recepita in Italia con decreto legislativo 96/2001. La vicenda ha preso il via da un’istanza di un cittadino italiano che, laureatosi in giurisprudenza a Palermo, aveva chiesto al Consiglio dell’Ordine degli avvocati della città siciliana l’iscrizione nella sezione speciale dell’albo professionale riservata agli avvocati comunitari stabiliti, tutto nel rispetto della direttiva 98/5. Il richiedente, infatti, era già iscritto nel Registro generale del Collegio degli Abogados di Barcellona e intendeva esercitare l’attività in Italia. La sua richiesta era stata respinta: il Consiglio dell’Ordine sosteneva, erroneamente, che la direttiva si dovesse applicare unicamente ai cittadini Ue di nazionalità diversa da quella dello Stato membro al quale è richiesta l’abilitazione all’esercizio alla professione. Il no all’iscrizione era stato poi confermato dal Consiglio nazionale forense secondo il quale l’iscrizione non poteva essere concessa perché il richiedente non aveva svolto il tirocinio biennale previsto dalla legge italiana e anche perché l’istante “non aveva dimostrato il conseguimento in Spagna, di un particolare ulteriore titolo abilitante né di specifica esperienza professionale”. Una posizione del tutto respinta dalla Cassazione. Per la Suprema Corte, il diritto Ue fornisce percorsi alternativi costituiti o dalla direttiva 2005/36 che permette alle autorità nazionali di prevedere misure compensative nei casi di diversità di studi o formazione o il procedimento di “stabilimento/integrazione” tramite la direttiva 98/5/CE. Con quest’ultimo sistema il richiedente, che ha già un titolo professionale in uno Stato membro chiede l’iscrizione nella sezione speciale dell’albo italiano e utilizza il proprio titolo di origine. Dopo un periodo di effettiva attività in Italia di 3 anni può chiedere di essere integrato con il titolo di avvocato italiano. Ora, considerando che il richiedente aveva il titolo di abogado in Spagna e chiedeva l’iscrizione nel registro speciale in Italia, le condizioni fissate nella direttiva erano del tutto rispettate. Il rifiuto opposto dal Consiglio forense era quindi immotivato. A ciò si aggiunga, prosegue la Cassazione, che nel procedimento previsto dalla direttiva 98/5, l’interesse pubblico al corretto svolgimento di un’attività professionale “è idoneamente tutelabile attraverso il triennio di esercizio della professione con il titolo di origine (d’intesa con un professionista abilitato) e la verifica dell’attività correlativamente espletata”. Senza dimenticare – prosegue la Cassazione – le pronunce dei giudici Ue nel caso Cavallera e Koller (riguardanti l’applicazione delle direttive 89/48 e 2005/36) nelle quali la Corte di Lussemburgo ha chiarito che è contrario al diritto Ue ogni ostacolo posto dalle autorità nazionali diverso dalle previsioni della normativa comunitaria che impedisca il riconoscimento delle qualifiche professionali, precisando che è sufficiente lo svolgimento di una prova attitudinale alternativa rispetto al tirocinio per ottenere il riconoscimento.
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