La Corte di Cassazione, sesta sezione penale, con sentenza n. 24348 depositata il 6 giugno, ha stabilito che le autorità italiane non possono dare seguito all’esecuzione di un mandato di cattura internazionale emesso dalla Giordania se la condanna disposta dalle autorità giudiziarie straniere prevede che il condannato sia sottoposto al lavoro forzato (estradizione). A rivolgersi alla Cassazione è stato un cittadino giordano condannato a tre anni di lavori forzati in quanto ritenuto responsabile di tratta di esseri umani. La Corte di appello di Milano aveva accolto la domanda di estradizione e, quindi, l’uomo ha presentato ricorso in Cassazione. Quest’ultima ha annullato la decisione dei giudici di appello nella parte in cui non è stata correttamente inquadrata la questione dei lavori forzati. La Corte territoriale – precisa la Cassazione – aveva sostenuto che la possibilità di svolgere un lavoro durante lo stato di detenzione non è preclusa dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 4, paragrafo 3). La Cassazione, però, ritiene che i giudici nazionali debbano verificare in concreto con quali modalità il lavoro sarà prestato e considerare, al tempo stesso, che l’articolo 4, paragrafo 2 della stessa Convenzione stabilisce che nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio, pur ammettendo, al successivo paragrafo, che non deve essere considerato lavoro forzato quello normalmente richiesto a una persona detenuta. Proprio su tale nozione, i giudici nazionali avrebbero dovuto svolgere un preciso accertamento anche tenendo conto che l’indicata definizione (“lavoro normalmente richiesto a una persona detenuta”) non è precisata nella Convenzione. La Suprema Corte richiama così la giurisprudenza di Strasburgo secondo la quale in ogni caso il lavoro punitivo deve risultare “comunque imprescindibilmente pervaso da istanze rieducative e orientato alla reintegrazione sociale del condannato”. Solo in questo senso si può ammettere che venga imposto al detenuto lo svolgimento di un lavoro che deve essere conforme alle finalità rieducative previste dall’articolo 27 della Costituzione. Pertanto, poiché la Corte di appello non ha effettuato una verifica sul punto, non valutando le caratteristiche della prestazione lavorativa alla quale potrebbe essere sottoposto il ricorrente e la presenza di finalità rieducative nella legislazione della Giordania, la Cassazione ha disposto l’annullamento della decisione di estradizione che potrebbe dare luogo a trattamenti lesivi dei diritti fondamentali dell’estradando. Spetta adesso a una diversa sezione della Corte di appello pronunciarsi.
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