Cognome del padre anche con il ricorso alla procreazione medicalmente assistita post mortem – Father’s surname and post mortem medically assisted procreation

La Corte di Cassazione, prima sezione civile, con sentenza n. 13000 depositata il 15 maggio, è intervenuta in un caso di procreazione medicalmente assistita effettuata all’estero dopo la morte del padre, riconoscendo che nell’atto di nascita deve essere indicato il suo nome (13000). A rivolgersi alla Cassazione era stata la madre di una bambina nata da procreazione medicalmente assistita all’estero. Moglie e marito avevano scelto insieme questo percorso ma, a causa della malattia del marito e poi della sua morte, la donna aveva proceduto da sola utilizzando, grazie al consenso fornito dall’uomo prima della morte, il seme crioconservato. La bambina era nata in Italia ma l’ufficio di stato civile si era rifiutato di indicare il marito come padre, in quanto la genitorialità sarebbe stata basata sulla sola dichiarazione della madre. Di qui il ricorso in tribunale e poi alla Corte di appello che, però, hanno dato torto alla donna. Un giudizio ribaltato in Cassazione. Prima di tutto, la Suprema Corte ha sottolineato la necessità che su tali questioni si tenga conto del dialogo costante tra corti supreme degli Stati europei ed extraeuropei, nonché del dialogo con la Corte di giustizia dell’Unione europea e con la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha “determinato la costituzione di una circolarità di approdi interpretativi che prendono spunti da aspetti diversi dell’esperienza giuridica”. La procreazione – osserva la Cassazione – “nella società della globalizzazione presenta un particolare dinamismo subordinato agli interessi concreti che è volta a soddisfare che, addirittura, mediante l’applicazione delle tecniche di P.M.A. anche dopo la morte di uno dei due partners, finisce con il superare il confine terreno dell’unità coniugale, ma che, comunque, non può prescindere dall’importante ruolo della responsabilità genitoriale, che passa da esercizio di un diritto alla procreazione allo svolgimento di una funzione genitoriale”. Le autorità nazionali sono così tenute a considerare l’interesse superiore del minore, non potendo trincerarsi dietro la circostanza che il ricorso all’estero alla procreazione mediamente assistita non sia disciplinato espressamente nell’ordinamento italiano. In questa direzione, a supporto del proprio ragionamento, la Suprema Corte ricorda le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nei casi Mennesson e Labassee contro Francia, nonché la sentenza della Corte costituzione n. 347 del 1998 e quella della stessa Cassazione n. 19599 del 30 settembre 2016. La Cassazione, inoltre, sottolinea che la legge n. 40 del 2004 non si occupa della procreazione post mortem e, quindi, c’è da chiedersi se sia possibile applicare i principi generali stabiliti nel codice civile in tema di filiazione naturale o l’articolo 8 della legge n. 40, relativo allo status giuridico del nato, che procede a un’equiparazione con i figli legittimi. La Corte propende per un’interpretazione in funzione dell’effettività della tutela del diritto della persona umana alla propria identità e, quindi, per l’identificazione “del proprio status di figlio di determinati genitori”, stabilendo l’applicazione dell’art. 8 della legge n. 40 del 2004 (accantonando, così, la presunzione dell’articolo 232 c.c.). Ciò che conta – prosegue la Suprema Corte – è che il coniuge o il convivente abbia prestato il proprio consenso alla procreazione assistita anche post mortem. Di qui il sì alla rettifica dell’atto di stato civile, con rinvio alla Corte di appello, per far sì che l’atto corrisponda alla situazione reale.

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