La sentenza della Grande Camera depositata il 27 agosto nel caso Parrillo contro Italia presenta due aspetti di particolare rilievo (CASE OF PARRILLO v. ITALY). Il primo, più immediato, quello relativo al riconoscimento dell’ampio margine di apprezzamento concesso agli Stati ai quali è attribuita la possibilità di scegliere, come ha fatto l’Italia, di vietare la ricerca scientifica sugli embrioni e, il secondo, riguardante la possibilità, per gli individui, di ricorrere alla Corte europea senza dover attivare e attendere un’eventuale pronuncia della Corte costituzionale considerando il carattere indiretto del ricorso alla Consulta che non incide, così, sull’obbligo del previo esaurimento dei ricorsi interni.
A rivolgersi alla Corte europea è stata una donna che aveva utilizzato la procreazione assistita in vitro. I cinque embrioni erano stati sottoposti alla crioconservazione. Tuttavia, dopo la morte del proprio compagno, ucciso nella strage di Nassiriya prima dell’impianto degli embrioni, la donna aveva deciso di donarli in modo che potessero essere impiegati nella ricerca. La richiesta, però, era stata respinta in base al divieto di sperimentazione e di ricerca sugli embrioni fissato nella legge n. 40/2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”. E questo anche se gli embrioni erano stati ottenuti prima dell’entrata in vigore della legge. La donna, quindi, sin dal 2011, aveva fatto ricorso a Strasburgo. La Camera ha rinviato il caso alla Grande Camera sia perché si trattava di una questione di particolare rilievo sia perché era il primo caso del genere arrivato a Strasburgo. Due le violazioni contestate dalla donna: la lesione dell’articolo 8 della Convenzione, che assicura il diritto al rispetto della vita privata e quella dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 sul diritto di proprietà.
Prima di tutto, però, la Grande Camera ha risposto alle eccezioni del Governo italiano secondo il quale la ricorrente aveva violato l’obbligo del previo esurimento dei ricorsi interni poiché non aveva promosso un ricorso alla Corte costituzionale. Una posizione respinta da Strasburgo che, per la prima volta, si è occupata del rapporto tra previo esaurimento dei ricorsi interni, condizione di ricevibilità dell’azione a Strasburgo a patto che essi siano effettivi sotto il profilo pratico e non solo teorico, e ricorso dinanzi alla Corte costituzionale. Ed invero, per la Corte europea, il ricorso alla Consulta non può essere considerato effettivo perché, a differenza di quanto accade in altri ordinamenti, non si tratta di un ricorso diretto. E’, infatti, il giudice di merito che deve sollevare la questione di costituzionalità. Inoltre, in aggiunta al fatto che l’Italia non ha fornito alcun esempio di pronunce interne sulla donazione degli embrioni e che non si può contestare alla ricorrente di non aver presentato un ricorso per misure proibite dalla legge, a sostegno della propria conclusione, la Grande Camera si è soffermata sulle sentenze n. 348 e 349 del 2007, con le quali è stato chiarito il diverso ruolo tra le due Corti: Strasburgo interpreta e accerta le violazioni della Convenzione, mentre la Consulta verifica la conformità del diritto interno alle norme convenzionali, come interpretate dai giudici di Strasburgo. A conferma del diverso ruolo, la Grande Camera ricorda che la stessa Corte costituzionale italiana ha sospeso l’esame di un rinvio sugli embrioni, effettuato dal Tribunale di Firenze, in attesa della sentenza della Corte europea. La Grande Camera considera senza dubbio positivo quanto stabilito con le sentenze n. 348 e n. 349 riguardo al ruolo assegnato alla Convenzione nell’ordinamento italiano, mentre traspare qualche perplessità sulla sentenza n. 49/2015 con la quale la Corte costituzionale sembra limitare gli effetti delle pronunce di Strasburgo, stabilendo che il giudice interno non è tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte europea se non nei casi di sentenze pilota o di diritto consolidato.
Respinta anche l’eccezione del mancato rispetto della condizione temporale che impone di presentare il ricorso entro sei mesi dalla definitività del provvedimento interno, la Corte europea è passata all’esame del merito del ricorso. Per la Grande Camera, il divieto di donazione di embrioni per la ricerca scientifica, fissato dall’articolo 13 della legge n. 40, non è contrario all’articolo 8. La Corte ha chiarito che gli embrioni contengono materiale genetico della ricorrente e, quindi, sono una parte costitutiva della sua identità. Questo vuol dire che l’articolo 8, nella parte in cui tutela la vita privata, è applicabile e include il diritto di decidere degli embrioni frutto della fecondazione assistita. Gli embrioni, quindi, sono parte dell’identità personale e del diritto di autodeterminarsi. Questo porta la Corte a ritenere che la legge che vieta la donazione degli embrioni è un’ingerenza nell’articolo 8. Detto questo, però, la Grande Camera ha stabilito che l’ingerenza, alla luce delle eccezioni previste dall’articolo 8, si può considerare “necessaria in una società democratica” anche perché raggiunge un giusto bilanciamento tra interessi dello Stato e diritti individuali. Inoltre, – ed è un aspetto che la Grande Camera considera centrale – sulle questioni sensibili dal punto di vista etico e morale e su aspetti sui quali manca ancora un’uniformità di orientamento degli Stati, i Paesi parti alla Convenzione godono di un ampio margine di apprezzamento. Se 17 Paesi ammettono la ricerca sugli embrioni, altri la vietano espressamente o la consentono solo per la protezione della salute dell’embrione. Non va dimenticato, inoltre, – scrive la Corte – che il partner non aveva espresso la propria volontà sugli embrioni prima della morte, tanto più che ciò non era possibile in base alla legislazione italiana.
In ultimo, la Grande Camera ha escluso la possibilità di invocare l’articolo 1 del Protocollo n. 1. Chiarito che non è necessario esaminare la controversa questione relativa al momento in cui inizia la vita umana ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione, che assicura il diritto alla vita, la Corte europea ha escluso la violazione del diritto di proprietà perché gli embrioni non possono essere considerati dei beni nel senso stabilito dalla norma convenzionale che ha un’evidente connotazione patrimoniale.
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