La nozione di luogo sicuro non è limitata alla protezione fisica delle persone, ma comprende il rispetto dei diritti fondamentali. Pertanto, Carola Rackete, capitano della Sea-Watch, nelle operazioni di soccorso a Lampedusa, ha agito rispettando il dovere di soccorso in mare e, quindi, bene ha fatto il Giudice delle indagini preliminari (Gip) del Tribunale di Agrigento a non convalidare l’arresto richiesto dalla Procura. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 6626 del 20 febbraio 2020 (6626). Per la Suprema Corte, il Gip ha correttamente utilizzato, come parametro normativo, il diritto internazionale consuetudinario e pattizio in materia di soccorso in mare che, in base alla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il salvataggio marittimo del 27 aprile 1979, resa esecutiva dall’Italia con legge n. 147 del 3 aprile 1989, afferma il principio “search and rescue” (ricerca e salvataggio). Tale principio – scrive la Cassazione – “non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “place of safety”)” che, in Italia, è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Di conseguenza, tenendo conto delle Linee guida del 2004 sul trattamento delle persone soccorse in mare non può essere considerata “luogo sicuro” una nave che è in balia degli eventi meteorologici e che non permette la piena realizzazione del rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Per la Cassazione, inoltre, il dovere di soccorso non è limitato al salvataggio dei naufraghi e alla loro permanenza sulla nave proprio perché le persone soccorse hanno diritto di presentare domanda di protezione internazionale in linea con la Convenzione di Ginevra del 1951, “operazione – osserva la Suprema Corte – che non può essere effettuata sulla nave”. Pertanto, la decisione del Gip di applicare la causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso è corretta.
Per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso relativo alla qualificazione della motovedetta della Guardia di Finanza come nave da guerra, la Cassazione, ricostruite le fonti rilevanti ai fini della qualificazione, giunge alla conclusione che le imbarcazioni della Guardia di Finanza sono sì navi militari, ma non navi da guerra ai sensi dell’art. 239 del decreto legislativo 15 marzo 2010 n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) che ha recepito l’art. 29 della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare. Per la Cassazione, per essere qualificata nave da guerra, l’unità della Guardia di Finanza avrebbe dovuto essere comandata “da un ufficiale di Marina al servizio dello Stato e iscritto nell’apposito ruolo degli ufficiali o in documento equipollente”, mentre nel caso di specie al comando vi era un maresciallo. In mancanza di tutti i requisiti necessari la Corte nega la qualificazione della motovedetta come “nave da guerra”. Respinto, quindi, il ricorso della procura.
Patrik Pappalardo
marzo 2, 2020Pregevole la giurisprudenza della Corte di Cassazione sul caso sea watch, il capitano Rackete ha applicato il diritto internazionale consuetudinario e pattizio, Pertanto non vi è stato nessuna atto di guerra contro le navi della Guardia di Finanza, il G.I.P. ha giustamente negato la convalida dell’arresto e riconosciuto la scriminante dell’adempimento del dovere di soccorso è corretta, e legittimità. La sentenza riconosce nella condotta del capitano Rackete la piena applicazione dell’ottemperamento del diritto internazionale consuetudinario e pattizio. E’ evidente secondo me che alla luce dell’ importante giudizio reso dalla Corte di Cassazione, l’indagata non dovrà nemmeno essere rinviata a giudizio.
Distinti Saluti