Un cambiamento di orientamento da parte dei giudici nazionali è inerente a ogni sistema giudiziario. Nessuna violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che assicura l’equo processo, nel caso in cui, sul piano nazionale, vi siano divergenze e soluzioni differenti in relazione a casi simili. E’ quanto ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 22 dicembre nel caso Stanković e Trajković contro Serbia (CASE OF STANKOVIC AND TRAJKOVIC v. SERBIA). A rivolgersi alla Corte due donne che avevano chiesto ai giudici interni un risarcimento per la scomparsa dei rispettivi mariti durante la guerra in Kosovo. Malgrado in precedenza i tribunali serbi avessero accordato a persone in analoga situazione un indennizzo, nel caso di specie il tribunale aveva respinto le richieste. Questo perché a partire dal giugno 1999, il controllo di quella parte del territorio serbo era passato nelle mani della forza KFOR. Di qui, il cambiamento di giurisprudenza. Una conclusione che la Corte ha ritenuto conforme alla Convenzione europea tanto più che non poteva considerarsi inaspettata visto che, dopo l’intervento Nato, il controllo del territorio non era più della Serbia. Strasburgo ha chiarito che non spetta alla Corte mettere a confronto le diverse pronunce dei giudici interni a meno che non si configuri una lesione dei diritti convenzionali e vi sia un livello di arbitrarietà. E’ vero che decisioni contrastanti possono intaccare la fiducia nel sistema dell’amministrazione della giustizia, ma questo non comporta che sul piano interno vi debba essere un’uniformità di decisioni tanto più che i giudici sono tenuti a seguire un approccio dinamico ed evolutivo. Nel caso alla sua attenzione, la Corte europea ha concluso che il cambiamento di orientamento non è stato arbitrario perché è stato fondato sul mutamento di una situazione fattuale.
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