Assegni familiari e cittadini extra Ue: obbligo di disapplicazione della norma interna contraria alla parità di trattamento

Un quadro normativo articolato, quello relativo alla corresponsione degli assegni familiari, con intrecci tra la disciplina nazionale, il diritto Ue, la Corte costituzionale e la Corte di giustizia dell’Unione europea. Per sbrogliare la matassa, è intervenuta la Corte di Cassazione, quarta sezione civile, con l’ordinanza n. 1425/23 depositata il 18 gennaio (ordinanza). A rivolgersi alla Suprema Corte è stato l’Istituto nazionale di previdenza sociale che contestava la decisione della Corte di appello di Torino del 2017 con la quale era stato dichiarato il carattere discriminatorio del diniego alla concessione dell’assegno familiare a un richiedente la cui moglie e figli risiedevano nello Sri Lanka. L’uomo aveva già da tempo ottenuto il permesso di soggiorno per lavoro subordinato e aveva chiesto gli assegni familiari anche con riferimento ai congiunti residenti in uno Stato extra Ue. L’INPS aveva respinto la richiesta, accolta, invece dai giudici di appello, che hanno proceduto alla disapplicazione dell’articolo 2, comma 6-bis del d.l. n. 69/1988 considerato in contrasto con la direttiva 2011/98 relativa a una procedura unica per il rilascio di un permesso unico nei confronti di cittadini extra Ue. La norma italiana, infatti, esclude dal calcolo degli assegni familiari, i coniugi e i figli non residenti in Italia, salvo nel caso di reciprocità nei confronti dei cittadini italiani. La Cassazione ha condiviso la conclusione dei giudici di appello proprio perché la direttiva ha norme assolutamente chiare, che assicurano la parità di trattamento senza apporre condizioni. Pertanto, gli organi della pubblica amministrazione hanno l’obbligo di disapplicare le norme interne “in quanto confliggono con una disciplina dell’Unione europea direttamente efficace”, senza necessità – come richiesto dall’INPS – di sollevare una questione di costituzionalità. Non solo. La Cassazione ricorda la pronuncia della Corte Ue del 25 novembre 2020 (causa C-302/19), con la quale è stato precisato che “il legislatore dell’Unione non ha inteso escludere il titolare di un permesso unico i cui familiari non risiedono nel territorio dello Stato membro interessato dal diritto alla parità di trattamento previsto dalla direttiva 2011/98”. L’esclusione di familiari per il solo fatto che risiedano all’estero è, quindi, in antitesi con gli obiettivi della direttiva 2011/98. D’altra parte, anche la Corte costituzionale ha stabilito l’effetto diretto della direttiva 2011/98 nella parte in cui impone la parità di trattamento tra cittadini di Paesi terzi e cittadini dello Stato membro in cui soggiornano. Di qui, il rigetto del ricorso e la disapplicazione della norma interna.

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