Maggiore possibilità di accesso ai metadati da parte delle autorità inquirenti che indagano su reati non classificati come “particolarmente gravi” sul piano interno. A patto, però, che l’ingerenza non sia essa stessa “particolarmente grave”. E’ l’Avvocato generale della Corte di giustizia dell’Unione europea, Henrik Saugmandsgaard Øe, a sostenerlo nelle conclusioni depositate ieri (Ministerio Fiscal, causa C-207/06, C-207:16) con le quali ha stabilito che la direttiva 2002/58/Ce del 12 luglio 2002 relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, modificata dalla 2009/136/CE (recepita con Dlgs 28 maggio 2012 n. 70), non impedisce alle autorità nazionali competenti di accedere ai dati di identificazione detenuti dai fornitori di servizi di comunicazione elettronica “qualora tali dati consentano di rintracciare i presunti autori di un reato che non presenta un carattere grave”. A rivolgersi agli eurogiudici è stata la Corte provinciale di Tarragona (Spagna) alle prese con un caso relativo a un furto di portafoglio e di cellulare subito da un uomo che era stato anche ferito. La polizia giudiziaria aveva chiesto al giudice istruttore di emettere un’ingiunzione nei confronti dei vari operatori di telefonia per individuare i numeri di telefono attivati con il codice IMEI del cellulare rubato e i dati personali dei titolari e degli utenti dei numeri di telefono corrispondenti alle carte SIM attivate con il codice. La richiesta era stata respinta perché l’accesso a questi dati è consentito, in base al diritto spagnolo, solo nei casi di gravi reati. Di qui l’appello del pubblico ministero e la decisione della Corte provinciale di Tarragona di chiamare in aiuto la Corte Ue. Nodo centrale è l’accesso delle autorità nazionali ai dati conservati e non le condizioni di conservazione degli stessi dati che rientrano, per l’Avvocato generale, nell’ambito di applicazione della direttiva anche nel caso di finalità di lotta contro la criminalità. Per Saugmandsgaard Øe se è vero che la richiesta della polizia giudiziaria costituisce un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata e della vita familiare (tutelato dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), nonché nel diritto alla protezione dei dati di carattere personale (articolo 8 della stessa Carta) e che in base alle sentenze Digital Rights e Tele2 è stato chiarito che deve sussistere un collegamento tra gravità dell’ingerenza e gravità del motivo che consente di giustificarla – situazione che non sussisteva nel caso di specie – è anche vero che la misura richiesta era limitata e finalizzata all’acquisizione di dati detenuti a fini commerciali. Non solo. I dati erano ristretti a una categoria specifica ossia quelli “il cui numero di telefono è stato attivato dal telefono cellulare il cui furto costituisce oggetto dell’indagine”. A ulteriore garanzia, l’ingerenza era prevista per un periodo limitato (solo 12 giorni) ed era esclusa ogni divulgazione dei dati. Un insieme di fattori che porta l’Avvocato generale a ritenere che gli effetti potenzialmente nocivi sono moderati e circoscritti e che l’ingerenza causata dalla comunicazione di tali dati di identità civile (quindi nome, cognome, indirizzo) “non riveste un carattere di particolare gravità”, non pregiudicando l’intimità della vita privata delle persone interessate in quanto limitata unicamente ai dati di contatto. Solo quando l’ingerenza è particolarmente grave è richiesto che il reato idoneo a giustificare l’indicata ingerenza sia di particolare gravità. La parola passa alla Corte.
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