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Sentenza  113/2011
Giudizio
Presidente DE SIERVO - Redattore FRIGO
Camera di Consiglio del 09/02/2011    Decisione  del 04/04/2011
Deposito del 07/04/2011   Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate: Art. 630 del codice di procedura penale.
Massime:
Atti decisi: ord. 303/2010

SENTENZA N. 113

ANNO 2011


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,


ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 630 del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di appello di Bologna nel procedimento penale a carico di D.P., con ordinanza del 23 dicembre 2008, iscritta al n. 303 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.


Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 23 dicembre 2008, pervenuta a questa Corte, con la prova delle prescritte notificazioni e comunicazioni, il 26 agosto 2010, la Corte di appello di Bologna ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione e all’art. 46 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la rinnovazione del processo allorché la sentenza o il decreto penale di condanna siano in contrasto con la sentenza definitiva della Corte [europea dei diritti dell’uomo] che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo».

Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a delibare due richieste riunite di revisione, proposte, ai sensi degli artt. 629 e seguenti cod. proc. pen., dal difensore di un condannato e da quest’ultimo personalmente, in relazione alla medesima sentenza di condanna. Alla data della prima delle due richieste – quella del difensore, presentata l’11 gennaio 2006 – il condannato stava espiando, in regime di detenzione domiciliare, la parte residua della pena di tredici anni e sei mesi di reclusione, inflittagli dalla Corte d’assise di Udine con sentenza del 3 ottobre 1994, divenuta irrevocabile il 27 marzo 1996.

Dopo la condanna definitiva – prosegue il rimettente – l’interessato si era rivolto alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, con «sentenza del 9 settembre 1998», aveva accertato il carattere «non equo» del processo celebrato nei suoi confronti, per violazione dell’art. 6 della CEDU: violazione ravvisata segnatamente nel fatto che il ricorrente era stato condannato sulla base delle dichiarazioni rese da tre coimputati, non esaminati in contraddittorio perché in dibattimento si erano avvalsi della facoltà di non rispondere.

Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa aveva sollecitato, quindi, più volte lo Stato italiano ad adottare le misure necessarie per garantire l’osservanza della citata decisione: sollecitazioni rimaste, peraltro, senza effetto.

Nel frattempo, sul versante interno, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine aveva promosso incidente di esecuzione al fine di verificare – alla luce di detta pronuncia – la legittimità della detenzione del condannato, con contestuale richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena.

Accogliendo il ricorso successivamente proposto dal pubblico ministero avverso l’ordinanza di rigetto della Corte d’assise di Udine, la Corte di cassazione, con sentenza 1° dicembre 2006-25 gennaio 2007, n. 2800, aveva dichiarato l’inefficacia dell’ordine di carcerazione emesso nei confronti del condannato, disponendone la liberazione. Nell’occasione, la Corte di cassazione aveva enunciato il principio di diritto in forza del quale «il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, a norma dell’art. 670 cod. proc. pen., l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea […] dei diritti dell’uomo […] abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’art. 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo».

Parallelamente, e prima che intervenisse la pronuncia della Corte di cassazione ora ricordata, il difensore del condannato aveva proposto al giudice a quo l’istanza di revisione che dà origine al giudizio principale. La difesa aveva sostenuto, in particolare, che la fattispecie considerata poteva essere ricondotta all’ipotesi del contrasto fra giudicati, di cui all’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., stante l’equiparabilità della decisione della Corte europea alla sentenza di un «giudice speciale»; aggiungendo che il mancato accoglimento di tale tesi avrebbe reso la norma costituzionalmente illegittima, per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost. Il difensore aveva chiesto, altresì, la sospensione dell’esecuzione della pena inflitta al proprio assistito: sospensione che era stata concessa dal giudice a quo.

Con ordinanza del 15 marzo 2006, la Corte d’appello rimettente – ritenendo impraticabile la soluzione interpretativa prospettata in via principale dalla difesa – aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10 e 27 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., «nella parte in cui esclude, dai casi di revisione, l’impossibilità che i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza della Corte Europea che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo».

In relazione agli indicati parametri, la questione era stata dichiarata, peraltro, infondata da questa Corte con sentenza n. 129 del 2008. La Corte aveva escluso, in specie, tanto la configurabilità di una disparità di trattamento fra casi simili, attenendo il contrasto fra giudicati, evocato dalla norma censurata, ai «fatti» su cui si fondano le diverse sentenze, e non alle valutazioni in esse effettuate; quanto una lesione della presunzione di innocenza, intesa come norma di diritto internazionale consuetudinario, posto che detta presunzione si dissolve allorché il processo è giunto al suo epilogo; quanto, infine, una compromissione della finalità rieducativa della pena, non potendo le regole del “giusto processo” essere considerate strumentali alla rieducazione del condannato. Nell’occasione, la Corte aveva comunque sottolineato «l’improrogabile necessità di predisporre adeguate misure», volte a riparare le violazioni ai principi in tema di “equo processo”, accertate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Ripresa quindi la trattazione del procedimento davanti alla Corte d’appello rimettente, il Procuratore generale aveva eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen. sotto un diverso profilo: quello, cioè, della lesione dell’art. 117 Cost. in riferimento all’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, che sancisce l’obbligo degli Stati contraenti di conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea, rimuovendo ogni effetto contrario.

Ad avviso del giudice a quo, la questione sarebbe, in tale termini, proponibile, in quanto basata su censure nuove e distinte rispetto a quelle già esaminate dalla Corte costituzionale. Indubbia risulterebbe, altresì, la sua rilevanza nel giudizio a quo. Allo stato, infatti, le richieste di revisione che il rimettente è chiamato a delibare dovrebbero essere dichiarate inammissibili, ai sensi dell’art. 634 cod. proc. pen., perché proposte fuori delle ipotesi previste dall’art. 630 del medesimo codice: declaratoria che lascerebbe, peraltro, «senza risposta» l’esigenza – suscettibile di scaturire dall’eventuale assoluzione dell’imputato all’esito di un nuovo processo – di riparare l’ingiusta detenzione (art. 314 cod. proc. pen.) o l’errore giudiziario (art. 643 cod. proc. pen.). L’accoglimento della questione renderebbe, al contrario, ammissibili le richieste, «con tutte le potenziali conseguenze».

Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva come, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le disposizioni della CEDU – nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo – costituiscano «norme interposte» ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone al legislatore di conformarsi agli obblighi internazionali: con la conseguenza che, ove il giudice ravvisi un contrasto, non componibile per via di interpretazione, tra una norma interna e una norma della Convenzione, egli non può disapplicare la norma interna, ma deve sottoporla a scrutinio di costituzionalità in rapporto al parametro dianzi indicato.

Il censurato art. 630 cod. proc. pen. risulterebbe, in effetti, inconciliabile con la previsione dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, a fronte della quale gli Stati contraenti sarebbero tenuti ad adeguare la propria legislazione alle norme della Convenzione, nel significato loro attribuito dalla Corte europea: obbligo internazionale che, nel caso di specie, la Corte di Strasburgo avrebbe ritenuto violato con la sentenza precedentemente ricordata.

Si dovrebbe dunque concludere che l’art. 630 cod. proc. pen. lede, sia pure indirettamente, l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui – nell’individuare i casi di revisione – omette tuttora di prevedere la rinnovazione del processo, allorché la sentenza o il decreto penale di condanna siano in contrasto con una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia accertato «l’assenza di equità del processo», ai sensi dell’art. 6 della CEDU.

2.1. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Ad avviso della difesa dello Stato, andrebbe escluso che l’istituto della revisione, quale disciplinato dal codice di procedura penale, rappresenti lo strumento adeguato per adempiere l’obbligo internazionale richiamato dal rimettente.

Dalla sentenza di questa Corte n. 129 del 2008 emergerebbe, infatti, con chiarezza come la fattispecie in discussione non sia assimilabile al conflitto di giudicati contemplato dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., non sussistendo una incompatibilità, sotto il profilo «naturalistico», tra i fatti ritenuti nella pronuncia nazionale e quelli ritenuti nella sentenza della Corte europea.

La revisione è, d’altra parte, configurata dal codice di rito come un mezzo di impugnazione straordinario preordinato esclusivamente al proscioglimento della persona già condannata in via definitiva; laddove, di contro, l’accertata violazione del diritto all’equo processo non equivale a prova dell’innocenza: non tutte le violazioni procedurali si riverberano, infatti, allo stesso modo sulla condanna, la quale potrebbe essere eventualmente confermata anche sottraendo l’elemento d’accusa «viziato».

Si dovrebbe, pertanto, ritenere che solo attraverso l’intervento del legislatore possa essere introdotta una riapertura del processo specificamente modulata sugli effetti delle sentenze della Corte europea.

2.2. – Con successiva memoria, l’Avvocatura generale dello Stato ha insistito per la declaratoria di inammissibilità o di infondatezza della questione.

La difesa erariale osserva come l’inserimento della decisione della Corte europea tra le ipotesi di revisione, nei termini auspicati dal rimettente, finirebbe per risolversi – essendo il ricorso a detta Corte subordinato al previo esaurimento dei rimedi interni (art. 35, paragrafo 1, della CEDU) – nella creazione di un «improvvido quarto grado di giudizio», atto a minare la coerenza dell’intero sistema processuale penale.

L’istituto della revisione è infatti basato, per lunga tradizione storica, sulla sopravvenienza di fatti oggettivi, esterni all’iter processuale, che rendono logicamente ed eticamente doveroso rimuovere gli effetti di una sentenza penale irrevocabile. Se si consentisse la revisione a seguito di una mera rivalutazione degli stessi fatti già esaminati nei tre gradi di giudizio e poi riesaminati dalla Corte europea, si innoverebbe profondamente tale impianto, con evidenti rischi per alcune categorie di processi (quali quelli contro la criminalità organizzata).

Occorrerebbe, in ogni caso, individuare una categoria di vizi così assoluti da non essere sanati dal giudicato, stabilendo, altresì, a quali condizioni le violazioni accertate dalla Corte europea possano dare luogo alla revisione, posto che non sempre dette violazioni incidono sulla correttezza della decisione interna. In quest’ottica, la revisione non costituirebbe, comunque, l’istituto più adatto a soddisfare le esigenze di adeguamento alle decisioni dei Giudici di Strasburgo, anche per la sua rigidità riguardo all’esito, scandito dalla secca alternativa tra la conferma della sentenza di condanna e il proscioglimento: rigidità eliminabile solo a seguito di modifiche talmente incisive da cambiare il volto dell’istituto stesso.

Sotto altro profilo, poi, andrebbe tenuto conto delle differenze qualitative tra responsabilità dello Stato derivanti da sentenze della Corte europea che richiedono misure individuali di esecuzione, e responsabilità dello Stato scaturenti da sentenze che richiedono misure generali, come nel caso dell’espropriazione.

Nell’accertare violazioni dell’art. 6 della CEDU, la Corte di Strasburgo avrebbe, in effetti – secondo l’Avvocatura dello Stato – sempre adottato misure individuali a favore dei ricorrenti in sede di equa riparazione, ai sensi dell’art. 41 della CEDU. Non avrebbe mai espressamente invitato lo Stato italiano ad adottare una riforma, ponendo vincoli conformativi, ma avrebbe ribadito piuttosto la sua giurisprudenza, secondo la quale spetta allo Stato, sotto il controllo del Comitato dei ministri, scegliere i mezzi per adempiere nell’ordinamento nazionale agli obblighi scaturenti dall’art. 46 della CEDU.

Tutto ciò conforterebbe la convinzione che spetti unicamente al legislatore introdurre forme di riapertura del processo a seguito di sentenze della Corte europea, calibrandole sulla specificità delle diverse situazioni, nell’ottica di contemperare le esigenze della certezza del diritto e quelle di tutela dei diritti (anche) processuali dei soggetti che hanno subito una condanna.


Considerato in diritto

1. – La Corte di appello di Bologna dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione e all’art. 46 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 630 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la rinnovazione del processo allorché la sentenza o il decreto penale di condanna siano in contrasto con la sentenza definitiva della Corte [europea dei diritti dell’uomo] che abbia accertato l’assenza di equità del processo, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo».

La Corte rimettente è chiamata a delibare due richieste riunite di revisione, aventi ad oggetto una sentenza di condanna a pena detentiva, divenuta irrevocabile. Secondo quanto riferisce il giudice a quo, le richieste farebbero seguito all’avvenuto accertamento, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, del carattere “non equo” del processo svoltosi nei confronti del condannato: ciò, in quanto la condanna era stata emessa sulla base delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da tre coimputati, non esaminati in dibattimento perché si erano avvalsi della facoltà di non rispondere (e, dunque, in violazione del diritto dell’accusato a interrogare o fare interrogare i testimoni a carico, garantito dall’art. 6, paragrafo 3, lettera d, della CEDU).

Escluso che la descritta evenienza possa essere ricondotta ad alcuno dei casi di revisione attualmente contemplati dall’art. 630 cod. proc. pen. – e, in particolare, a quello (invocato nella prima delle richieste) della inconciliabilità tra giudicati, di cui al comma 1, lettera a) – la Corte rimettente assume che, proprio per questa ragione, la norma censurata risulterebbe inconciliabile con le previsioni dell’art. 46 della CEDU. Nell’obbligare gli Stati contraenti ad uniformarsi alle sentenze definitive della Corte europea, la disposizione convenzionale ora citata li vincolerebbe, infatti, a permettere la rinnovazione del processo, pur definito con sentenza o decreto penale irrevocabile, allorché la Corte di Strasburgo ne abbia accertato il carattere “non equo”, ai sensi dell’art. 6 della CEDU.

Di conseguenza, il denunciato art. 630 cod. proc. pen. verrebbe a porsi, sia pure indirettamente, in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone al legislatore il rispetto degli obblighi internazionali.

2. – In via preliminare, va osservato come la questione di legittimità costituzionale in esame debba ritenersi ammissibile, in quanto sostanzialmente diversa – pur nell’analogia delle finalità perseguite – rispetto a quella in precedenza sollevata dalla Corte di appello di Bologna nel medesimo giudizio e dichiarata non fondata da questa Corte con sentenza n. 129 del 2008.

Detta diversità si apprezza in rapporto a tutti e tre gli elementi che compongono la questione: l’oggetto è più ampio (essendo sottoposto a scrutinio l’art. 630 cod. proc. pen. nella sua interezza, e non la sola disposizione di cui al comma 1, lettera a), nuovo è il parametro evocato e differenti sono anche le argomentazioni svolte a sostegno della denuncia di incostituzionalità.

Non ricorre, pertanto, nella specie, la preclusione alla riproposizione della questione nel medesimo grado di giudizio, volta ad evitare un bis in idem che si risolverebbe nella impugnazione della precedente decisione della Corte, inammissibile alla stregua dell’ultimo comma dell’art. 137 Cost. (al riguardo, tra le altre, sentenze n. 477 del 2002, n. 225 del 1994 e n. 257 del 1991).

3. – Nel merito, la questione è fondata, nei termini di seguito specificati.

4. – L’art. 46 della CEDU – evocato dal giudice a quo quale «norma interposta» – impegna, al paragrafo 1, gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte [europea dei diritti dell’uomo] sulle controversie di cui sono parti»; soggiungendo, al paragrafo 2, che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne controlla l’esecuzione».

Si tratta di previsione di centrale rilievo nel sistema europeo di tutela dei diritti fondamentali, che fa perno sulla Corte di Strasburgo: è evidente, infatti, come la consistenza dell’obbligo primario nascente dalla CEDU a carico degli Stati contraenti – riconoscere a ogni persona i diritti e le libertà garantiti dalla Convenzione (art. 1) – venga a dipendere, in larga misura, dalle modalità di “composizione” delle singole violazioni accertate.

Al riguardo, si deve rilevare come, successivamente all’ordinanza di rimessione, l’art. 46 della CEDU sia stato modificato per effetto dell’entrata in vigore (il 1° giugno 2010) del Protocollo n. 14 alla Convenzione (ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 15 dicembre 2005, n. 280). La modifica non elide, peraltro, le esigenze poste a fondamento della questione di costituzionalità, ma semmai le rafforza. Tramite l’aggiunta di tre ulteriori paragrafi, si prevede, infatti, che il Comitato dei ministri possa chiedere alla Corte di Strasburgo una decisione interpretativa, quando vi siano dubbi circa il contenuto di una sentenza definitiva in precedenza adottata, tali da ostacolare il controllo sulla sua esecuzione (paragrafo 3 dell’art. 46); nonché, soprattutto, che possa chiedere alla Corte una ulteriore pronuncia, la quale accerti l’avvenuta violazione dell’obbligo per una Parte contraente di conformarsi alle sue sentenze (paragrafi 4 e 5). Viene introdotto, così, uno specifico procedimento di infrazione, atto a costituire un più incisivo mezzo di pressione nei confronti dello Stato convenuto.

Quanto, poi, ai contenuti dell’obbligo, l’art. 46 va letto in combinazione sistematica con l’art. 41 della CEDU, a mente del quale, «se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette che in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa».

A questo proposito, è peraltro consolidata, nella più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, l’affermazione in forza della quale, «quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico, non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo di equa soddisfazione, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie» (tra le molte, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 147; Grande Camera, sentenza 1° marzo 2006, Sejdovic contro Italia, punto 119; Grande Camera, sentenza 8 aprile 2004, Assanidzé contro Georgia, punto 198). Ciò in quanto, alla luce dell’art. 41 della CEDU, le somme assegnate a titolo di equo indennizzo mirano unicamente ad «accordare un risarcimento per i danni subiti dagli interessati nella misura in cui questi costituiscano una conseguenza della violazione che non può in ogni caso essere cancellata» (sentenza 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia, punto 250).

La finalità delle misure individuali che lo Stato convenuto è tenuto a porre in essere è, per altro verso, puntualmente individuata dalla Corte europea nella restitutio in integrum in favore dell’interessato. Dette misure devono porre, cioè, «il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza […] della Convenzione» (ex plurimis, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 151; sentenza 10 novembre 2004, Sejdovic contro Italia, punto 55; sentenza 18 maggio 2004, Somogyi contro Italia, punto 86). In quest’ottica, lo Stato convenuto è chiamato anche a rimuovere gli impedimenti che, a livello di legislazione nazionale, si frappongano al conseguimento dell’obiettivo: «ratificando la Convenzione», difatti, «gli Stati contraenti si impegnano a far sì che il loro diritto interno sia compatibile con quest’ultima» e, dunque, anche ad «eliminare, nel proprio ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo a un adeguato ripristino della situazione del ricorrente» (Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 152; Grande Camera, sentenza 8 aprile 2004, Assanidzé contro Georgia, punto 198).

Con particolare riguardo alle infrazioni correlate allo svolgimento di un processo, e di un processo penale in specie, la Corte di Strasburgo, muovendo dalle ricordate premesse, ha identificato nella riapertura del processo il meccanismo più consono ai fini della restitutio in integrum, segnatamente nei casi di accertata violazione delle garanzie stabilite dall’art. 6 della Convenzione. Ciò, in conformità alle indicazioni già offerte dal Comitato dei ministri, in particolare nella Raccomandazione R(2000)2 del 19 gennaio 2000, con la quale le Parti contraenti sono state specificamente invitate «ad esaminare i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali allo scopo di assicurare che esistano adeguate possibilità di riesame di un caso, ivi compresa la riapertura di procedimenti, laddove la Corte abbia riscontrato una violazione della Convenzione».

I Giudici di Strasburgo hanno affermato, in specie – con giurisprudenza ormai costante – che, quando un privato è stato condannato all’esito di un procedimento inficiato da inosservanze dell’art. 6 della Convenzione, il mezzo più appropriato per porre rimedio alla violazione constatata è rappresentato, in linea di principio, «da un nuovo processo o dalla riapertura del procedimento, su domanda dell’interessato», nel rispetto di tutte le condizioni di un processo equo (ex plurimis, sentenza 11 dicembre 2007, Cat Berro contro Italia, punto 46; sentenza 8 febbraio 2007, Kollcaku contro Italia, punto 81; sentenza 21 dicembre 2006, Zunic contro Italia, punto 74; Grande Camera, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan contro Turchia, punto 210). Ciò, pur dovendosi riconoscere allo Stato convenuto una discrezionalità nella scelta delle modalità di adempimento del proprio obbligo, sotto il controllo del Comitato dei ministri e nei limiti della compatibilità con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte (tra le molte, Grande Camera, sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, punto 152; Grande Camera, sentenza 1° marzo 2006, Sejdovic contro Italia, punti 119 e 127; Grande camera, sentenza 12 maggio 2005, Öcalan contro Turchia, punto 210).

5. – Si comprende, peraltro, come al fine di assicurare la restitutio in integrum della vittima della violazione, nei sensi indicati dalla Corte europea, occorre poter rimettere in discussione il giudicato già formatosi sulla vicenda giudiziaria sanzionata. L’avvenuto esaurimento dei rimedi interni rappresenta, infatti, condizione imprescindibile di legittimazione per il ricorso alla Corte di Strasburgo (art. 35, paragrafo 1, della CEDU): con la conseguenza che quest’ultima si pronuncia, in via di principio, su vicende già definite a livello interno con decisione irrevocabile.

In tale prospettiva, larga parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa – soprattutto dopo la citata Raccomandazione R(2000)2 – si è dotata di una apposita disciplina, intesa a permettere la riapertura del processo penale riconosciuto “non equo” dalla Corte europea; mentre in altri Paesi, pure in assenza di uno specifico intervento normativo, la riapertura è stata comunque garantita da una applicazione estensiva del mezzo straordinario di impugnazione già previsto dalla legislazione nazionale.

La situazione si presenta significativamente diversa nell’ordinamento italiano. L’impossibilità di avvalersi, ai fini considerati, del mezzo straordinario di impugnazione storicamente radicato nel sistema processuale penale – cioè, la revisione – è, infatti, generalmente riconosciuta, non essendo l’ipotesi in questione riconducibile ad alcuno dei casi attualmente contemplati dall’art. 630 cod. proc. pen. Tale insieme di casi riflette, d’altronde, la tradizionale configurazione dell’istituto quale strumento volto a comporre il dissidio tra la “verità processuale”, consacrata dal giudicato, e la “verità storica”, risultante da elementi fattuali “esterni” al giudicato stesso. Si tratta, in altre parole, di un rimedio contro il difettoso apprezzamento da parte del giudice del fatto storico-naturalistico: difetto che può emergere per contrasto con i fatti stabiliti da decisioni distinte da quella oggetto di denuncia (lettere a e b dell’art. 630 cod. proc. pen.); per insufficiente conoscenza degli elementi probatori al momento della decisione (lettera c), o per effetto di dimostrata condotta criminosa (lettera d). Al tempo stesso, la revisione risulta strutturata in funzione del solo proscioglimento della persona già condannata: obbiettivo, che si trova immediatamente espresso come oggetto del giudizio prognostico circa l’idoneità dimostrativa degli elementi posti a base della domanda di revisione, che l’art. 631 cod. proc. pen. eleva a condizione di ammissibilità della domanda stessa.

Nel caso di accertamento, da parte della Corte di Strasburgo, della violazione dell’art. 6 della CEDU la prospettiva è affatto diversa. Si tratta, in tal caso, di porre rimedio, oltre i limiti del giudicato (considerati tradizionalmente comunque insuperabili con riguardo agli errores in procedendo), a un “vizio” interno al processo, tramite una riapertura del medesimo che ponga l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della lesione. Rimediare al difetto di “equità” di un processo, d’altro canto, non significa giungere necessariamente a un giudizio assolutorio: chi è stato condannato, ad esempio, da un giudice non imparziale o non indipendente – secondo la valutazione della Corte europea – deve vedersi assicurato un nuovo processo davanti a un giudice rispondente ai requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, senza che tale diritto possa rimanere rigidamente subordinato a un determinato tipo di pronostico circa il relativo esito (il nuovo processo potrebbe bene concludersi, ad esempio, anziché con l’assoluzione, con una condanna, fermo naturalmente il divieto della reformatio in peius).

Esclusa, dunque, la fruibilità dell’istituto della revisione, la giurisprudenza ha sperimentato diverse soluzioni ermeneutiche intese a salvaguardare i diritti riconosciuti dalla CEDU, superando le preclusioni connesse al giudicato. Per comune convincimento, tuttavia, si tratta di soluzioni parziali e inidonee alla piena realizzazione dell’obiettivo.

La notazione vale, anzitutto, con riguardo alla soluzione che fa leva sull’altro mezzo straordinario di impugnazione introdotto più di recente nell’ordinamento, ossia il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione (art. 625-bis cod. proc. pen.); rimedio che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto utilizzabile, in via analogica, al fine di dare esecuzione alle sentenze della Corte di Strasburgo che abbiano accertato violazioni di garanzie convenzionali, ancorché non dipese da mero errore percettivo (Cass., 12 novembre 2008-11 dicembre 2008, n. 45807; si veda anche Cass., 11 febbraio 2010-28 aprile 2010, n. 16507). A prescindere da ogni altro rilievo, lo strumento previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen. non può comunque rappresentare una risposta esaustiva al problema, risultando strutturalmente inidoneo ad assicurare la riapertura dei processi a fronte di violazioni che non si siano verificate nell’ambito del giudizio di cassazione (quale quella riscontrata nella vicenda oggetto del giudizio a quo).

Analoga conclusione si impone in riferimento all’impiego dell’istituto della restituzione in termini per la proposizione dell’impugnazione (art. 175, comma 2, cod. proc. pen.): trattandosi di meccanismo che, in ragione del dettato della norma ora citata, risulta utilizzabile – ed è stato in fatto utilizzato dalla giurisprudenza – unicamente per porre rimedio alle violazioni della CEDU collegate alla disciplina del processo contumaciale (tra le altre, Cass., 12 febbraio 2008-27 febbraio 2008, n. 8784; Cass., 15 novembre 2006-2 febbraio 2007, n. 4395). Ipotesi che non viene parimenti in rilievo nel giudizio a quo.

Ma la valutazione non muta neppure con riguardo all’ulteriore soluzione interpretativa praticata proprio in relazione alla vicenda oggetto del presente giudizio in sede di esecuzione del giudicato e che fa perno sull’incidente di esecuzione regolato dall’art. 670 cod. proc. pen. (supra, punto 1 del Ritenuto in fatto). Si tratta, in specie, della tesi secondo la quale, quando la Corte europea abbia accertato che la condanna è stata pronunciata in violazione delle regole sull’equo processo, riconoscendo il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, il giudice dell’esecuzione sarebbe tenuto a dichiarare l’ineseguibilità del giudicato, ancorché il legislatore abbia omesso di introdurre «un mezzo idoneo a instaurare il nuovo processo» (Cass., 1° dicembre 2006-25 gennaio 2007, n. 2800). Al di là di ogni altra possibile considerazione, il rimedio si rivela, infatti, inadeguato: esso “congela” il giudicato, impedendone l’esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di “limbo processuale”. Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilità non dà risposta all’esigenza primaria: quella, cioè, della riapertura del processo, in condizioni che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione.

6. – L’assenza, nell’ordinamento italiano, di un apposito rimedio diretto a tale fine è stata, d’altronde, reiteratamente stigmatizzata dagli organi del Consiglio d’Europa, anche e soprattutto in rapporto al caso concernente il condannato nel giudizio a quo.

A questo proposito, occorre preliminarmente rilevare – a rettifica di quanto si afferma nell’ordinanza di rimessione – che la Corte europea dei diritti dell’uomo non si è, in realtà, mai pronunciata sulla detta vicenda. L’atto che il giudice rimettente qualifica come «sentenza del 9 settembre 1998» della Corte di Strasburgo, è, in effetti, un rapporto di pari data della Commissione europea dei diritti dell’uomo (organo soppresso dal Protocollo n. 11): rapporto che è stato recepito dal Comitato dei ministri con decisione del 15 aprile 1999 (Risoluzione interinale DH(99)258). Ai sensi dell’art. 32 della CEDU, nel testo anteriore all’entrata in vigore del Protocollo n. 11 (avvenuta il 1° novembre 1998, ma con applicazione della disciplina previgente ai casi pendenti a detta data, in forza della disposizione transitoria di cui all’art. 5), il Comitato dei ministri era, infatti, competente a deliberare sui casi pervenuti al suo esame dopo la redazione di un rapporto da parte della Commissione europea, cui non seguisse il deferimento entro tre mesi della controversia alla Corte di Strasburgo.

La circostanza ora evidenziata non influisce, tuttavia, sulla rilevanza della questione, giacché in forza dell’originario art. 32, paragrafo 4, della CEDU, le decisioni del Comitato dei ministri erano vincolanti per gli Stati contraenti allo stesso modo delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo: avendosi, quindi – ora per allora – una piena equivalenza delle une alle altre ai fini considerati.

Proprio in questa prospettiva, tanto il Comitato dei ministri (Risoluzioni interinali ResDH(2000) 30 del 19 febbraio 2002, ResDH(2004)13 del 10 febbraio 2004 e ResDH(2005)85 del 12 ottobre 2005), quanto l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (si veda, tra le altre, la Risoluzione n. 1516(2006) del 2 ottobre 2006) hanno censurato, in toni via via più pressanti, l’inadempienza dell’Italia all’obbligo di rimuovere le conseguenze della violazione accertata nel caso in esame: inadempienza correlata appunto alla mancanza, nell’ordinamento interno, di un meccanismo atto a consentire la riapertura del processo dichiarato “non equo”.

La sollecitazione ad introdurre, «il più rapidamente possibile», un simile meccanismo è stata nuovamente rivolta alle autorità italiane dal Comitato dei ministri anche in occasione della decisione di chiusura della procedura di controllo relativa a detto caso: decisione adottata dopo la ricordata pronuncia della Corte di cassazione che aveva dichiarato ineseguibile il giudicato formatosi nei confronti del condannato, ordinandone la liberazione (Risoluzione finale CM/ResDH(2007)83 del 19 febbraio 2007).

7. – In sede di scrutinio della ricordata precedente questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte di appello di Bologna nell’ambito del medesimo giudizio (supra, punto 1 del Ritenuto in fatto), questa Corte ha già avuto modo di rimarcare come, alla luce delle vicende dianzi riassunte, la predisposizione di adeguate misure volte a riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite da accertate violazioni del diritto all’equo processo si ponesse in termini di «evidente, improrogabile necessità» (sentenza n. 129 del 2008).

Ciò, tuttavia, non ha potuto impedire che tale questione – per i termini in cui era stata formulata – si dovesse dichiarare non fondata.

Il quesito di costituzionalità era diretto, infatti, ad estendere all’ipotesi considerata lo specifico caso di revisione previsto dall’art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., sulla base della denunciata violazione degli artt. 3, 10 e 27 Cost. Al riguardo, si è rilevato come nessuno dei parametri evocati – principio di eguaglianza; presunzione di innocenza, intesa come norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta; finalità rieducativa della pena – risultasse pertinente. Non il primo, stante l’eterogeneità della situazione descritta dal citato art. 630, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. rispetto a quella posta a raffronto: giacché il concetto di inconciliabilità tra sentenze irrevocabili, evocato dalla norma del codice, attiene all’oggettiva incompatibilità tra i «fatti» (intesi in senso storico-naturalistico) su cui si fondano le decisioni, e non alla contraddittorietà logica delle valutazioni in esse effettuate. Non il secondo, poiché l’art. 10, primo comma, Cost. non comprende le norme pattizie che non riproducano principi o norme consuetudinarie del diritto internazionale; ciò, senza considerare che la «presunzione di innocenza» non ha, di per sé, «nulla a che vedere con i rimedi straordinari destinati a purgare gli eventuali errores, in procedendo o in iudicando che siano», dissolvendosi – quella presunzione – nel momento stesso in cui il processo giunge al suo epilogo. Neppure, da ultimo, era conferente il terzo parametro, posto che la pretesa del rimettente di assegnare alle regole del «giusto processo» una funzione strumentale alla «rieducazione» del condannato avrebbe determinato «una paradossale eterogenesi dei fini, che vanificherebbe – questa sì – la stessa presunzione di non colpevolezza» (sentenza n. 129 del 2008).

Nel respingere la questione, questa Corte non ha mancato, tuttavia, di rivolgere un «pressante invito» al legislatore, affinché colmasse, con i provvedimenti ritenuti più idonei, la lacuna normativa in contestazione. Ma, nonostante il tempo trascorso, tale esortazione è rimasta senza seguito.

8. – A diversa conclusione deve pervenirsi circa la questione di legittimità costituzionale oggi in esame, la quale, per un verso, investe l’art. 630 cod. proc. pen. nel suo complesso, e, per altro verso, viene proposta in riferimento al diverso e più appropriato parametro espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., assumendo, quale «norma interposta», l’art. 46 (in correlazione all’art. 6) della CEDU.

A partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008; sulla perdurante validità di tale ricostruzione anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, sentenza n. 80 del 2011). Prospettiva nella quale, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato.

Nella specie, si è già rimarcato (supra, punto 4 del Considerato in diritto) come la Corte di Strasburgo ritenga, con giurisprudenza ormai costante, che l’obbligo di conformarsi alle proprie sentenze definitive, sancito a carico delle Parti contraenti dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, comporti anche l’impegno degli Stati contraenti a permettere la riapertura dei processi, su richiesta dell’interessato, quante volte essa appaia necessaria ai fini della restitutio in integrum in favore del medesimo, nel caso di violazione delle garanzie riconosciute dalla Convenzione, particolarmente in tema di equo processo.

Tale interpretazione non può ritenersi contrastante con le conferenti tutele offerte dalla Costituzione. In particolare – pur nella indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilità della cosa giudicata – non può ritenersi contraria a Costituzione la previsione del venir meno dei relativi effetti preclusivi in presenza di compromissioni di particolare pregnanza – quali quelle accertate dalla Corte di Strasburgo, avendo riguardo alla vicenda giudiziaria nel suo complesso – delle garanzie attinenti a diritti fondamentali della persona: garanzie che, con particolare riguardo alle previsioni dell’art. 6 della Convenzione, trovano del resto ampio riscontro nel vigente testo dell’art. 111 Cost.

Il giudice a quo ha, per altro verso, non ingiustificatamente individuato nell’art. 630 cod. proc. pen. la sedes dell’intervento additivo richiesto: la revisione, infatti – comportando, quale mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di cognizione, estesa anche all’assunzione delle prove – costituisce l’istituto, fra quelli attualmente esistenti nel sistema processuale penale, che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformità dell’ordinamento nazionale al parametro evocato.

Contrariamente a quanto sostiene l’Avvocatura dello Stato, d’altro canto, all’accoglimento della questione non può essere di ostacolo la circostanza che – come pure si è avuto modo di rilevare (supra, punto 5 del Considerato in diritto) – l’ipotesi della riapertura del processo collegata al vincolo scaturente dalla CEDU risulti eterogenea rispetto agli altri casi di revisione attualmente contemplati dalla norma censurata, sia perché fuoriesce dalla logica, a questi sottesa, della composizione dello iato tra “verità processuale” e “verità storica”, emergente da elementi “esterni” al processo già celebrato; sia perché a detta ipotesi non si attaglia la rigida alternativa, prefigurata dalla disciplina vigente quanto agli esiti del giudizio di revisione, tra proscioglimento e conferma della precedente condanna.

Posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma (o, meglio, la norma maggiormente pertinente alla fattispecie in discussione) omette di prevedere. Né, per risalente rilievo di questa Corte (sentenza n. 59 del 1958), può essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina – reale o apparente – che da essa può derivarne, in ordine a determinati rapporti. Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione.

Nella specie, l’art. 630 cod. proc. pen. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo proprio perché (e nella parte in cui) non contempla un «diverso» caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, volto specificamente a consentire (per il processo definito con una delle pronunce indicate nell’art. 629 cod. proc. pen.) la riapertura del processo – intesa, quest’ultima, come concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di attività già espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio – quando la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo (cui, per quanto già detto, va equiparata la decisione adottata dal Comitato dei ministri a norma del precedente testo dell’art. 32 della CEDU).

La necessità della riapertura andrà apprezzata – oltre che in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata (è di tutta evidenza, così, ad esempio, che non darà comunque luogo a riapertura l’inosservanza del principio di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6, paragrafo 1, CEDU, dato che la ripresa delle attività processuali approfondirebbe l’offesa) – tenendo naturalmente conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta, nonché nella sentenza “interpretativa” eventualmente richiesta alla Corte di Strasburgo dal Comitato dei ministri, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 3, della CEDU.

S’intende, per altro verso, che, quando ricorra l’evenienza considerata, il giudice dovrà procedere a un vaglio di compatibilità delle singole disposizioni relative al giudizio di revisione. Dovranno ritenersi, infatti, inapplicabili le disposizioni che appaiano inconciliabili, sul piano logico-giuridico, con l’obiettivo perseguito (porre l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata, e non già rimediare a un difettoso apprezzamento del fatto da parte del giudice, risultante da elementi esterni al giudicato), prime fra tutte – per quanto si è osservato – quelle che riflettono la tradizionale preordinazione del giudizio di revisione al solo proscioglimento del condannato. Così, per esempio, rimarrà inoperante la condizione di ammissibilità, basata sulla prognosi assolutoria, indicata dall’art. 631 cod. proc. pen.; come pure inapplicabili saranno da ritenere – nei congrui casi – le previsioni dei commi 2 e 3 dell’art. 637 cod. proc. pen. (secondo le quali, rispettivamente, l’accoglimento della richiesta comporta senz’altro il proscioglimento dell’interessato, e il giudice non lo può pronunciare esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio).

Occorre considerare, d’altro canto, che l’ipotesi di revisione in parola comporta, nella sostanza, una deroga – imposta dall’esigenza di rispetto di obblighi internazionali – al ricordato principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato. In questa prospettiva, il giudice della revisione valuterà anche come le cause della non equità del processo rilevate dalla Corte europea si debbano tradurre, appunto, in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli.

9. – Giova ribadire e sottolineare che l’incidenza della declaratoria di incostituzionalità sull’art. 630 cod. proc. pen. non implica una pregiudiziale opzione di questa Corte a favore dell’istituto della revisione, essendo giustificata soltanto dall’inesistenza di altra e più idonea sedes dell’intervento additivo. Il legislatore resta pertanto e ovviamente libero di regolare con una diversa disciplina – recata anche dall’introduzione di un autonomo e distinto istituto – il meccanismo di adeguamento alle pronunce definitive della Corte di Strasburgo, come pure di dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali questa Corte non potrebbe intervenire, in quanto involventi scelte discrezionali (quale, ad esempio, la previsione di un termine di decadenza per la presentazione della domanda di riapertura del processo, a decorrere dalla definitività della sentenza della Corte europea). Allo stesso modo, rimane affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta dei limiti e dei modi nei quali eventualmente valorizzare le indicazioni della Raccomandazione R(2000)2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, più volte richiamata, nella parte in cui prospetta la possibile introduzione di condizioni per la riapertura del procedimento, collegate alla natura delle conseguenze prodotte dalla decisione interna e all’incidenza su quest’ultima della violazione accertata (punto II, i e ii).


per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 aprile 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2011.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: MELATTI




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