Il carcere per i giornalisti non è compatibile con la Convenzione europea. Scatta così la condanna all’Italia anche se l’articolo era diffamatorio

Il contenuto dell’articolo era diffamatorio e il direttore responsabile non aveva controllato, ma sull’Italia ricade una condanna per violazione della libertà di espressione. Questo perché l’ordinamento interno prevede una misura che è in sé sproporzionata, ossia il carcere che può essere ammesso solo in casi particolarmente gravi come l’incitamento all’odio. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza depositata oggi con la quale l’Italia è stata condannata per violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea che assicura il diritto alla libertà di espressione (AFFAIRE BELPIETRO c. ITALIE). Il ricorso a Strasburgo era stato presentato dall’allora direttore del quotidiano “Il Giornale”, Maurizio Belpietro condannato dalla Corte di appello di Milano a 4 mesi di carcere (pena sospesa) per omesso controllo. Su “Il Giornale”, infatti, era stato pubblicato un articolo di un senatore che aveva usato toni accessi nei confronti di alcuni procuratori di Palermo, ricostruendo uno scontro tra Procura e Carabinieri. Il senatore non era stato processato, malgrado la denuncia per diffamazione, in quanto il Senato riteneva che fosse coperto dall’immunità in base all’art. 68 della Costituzione. Il Gip di Milano aveva sollevato una questione dinanzi alla Corte costituzionale ma, con ordinanza, il ricorso era stato respinto perché presentato tardi. L’azione penale era proseguita nei confronti del direttore responsabile. Assolto in primo grado, il giornalista era stato condannato in appello con sentenza del 16 gennaio 2009, confermata in cassazione. La società editrice era stata condannata in solido a versare a ciascuno dei magistrati, che avevano agito per diffamazione, 50.000 euro per il danno subito, oltre a 18.000 euro per le spese processuali. Belpietro ha fatto ricorso alla Corte europea che ha condannato l’Italia. Sono però significative le affermazioni della Corte. Strasburgo riconosce che l’argomento trattato nell’articolo era di interesse generale, ma afferma che la valutazione della Corte d’appello circa il carattere diffamatorio dell’articolo nel quale si accusavano i magistrati non era stata arbitraria. Per la Corte europea erano state avanzate accuse molto gravi nei confronti di funzionari dello Stato senza che fossero riportati dati oggettivi a sostegno della tesi. Ma c’è di più, perché per i giudici internazionali l’articolo 57 del codice penale italiano che fissa un obbligo di controllo del direttore responsabile e una sua responsabilità per colpa, non è in sé contrario alla Convenzione. Il direttore è tenuto a un’azione di vigilanza anche quando un articolo è scritto da un membro del parlamento che gode dell’immunità. A ciò si aggiunga che la presentazione anche grafica dell’articolo indicava un attacco alla professionalità dei procuratori di Palermo. Pertanto, la condanna per diffamazione non è stata in sé contraria alla Convenzione. Quello che non supera il vaglio della Corte è la pena ossia la comminazione del carcere. E’ vero che la misura detentiva è stata sospesa, ma la sola previsione del carcere per il giornalisti è contraria alla Convenzione. Di qui la condanna all’Italia (tenuta a versare un indennizzo per i danni non patrimoniali pari a 10.000 euro), che dovrebbe finalmente eliminare la misura del carcere sostituendola con ammende pecuniarie proporzionali per evitare condanne seriali a Strasburgo, che pesano anche sulle casse dello Stato.

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