Una nuova sconfitta sul piano della tutela dei diritti che fa il paio con quelle accumulate a Strasburgo per le condizioni di vita dei detenuti e con provvedimenti interni che sacrificano la tutela di diritti fondamentali nel nome della sicurezza nazionale (da ultimo il caso della grazia al colonnello Joseph Romano, http://www.marinacastellaneta.it/blog/grazia-per-uno-dei-responsabili-della-extraordinary-rendition-di-abu-omar.htm). Senza dimenticare le espulsioni in Paesi nei quali vi è il rischio di tortura con la pratica dei respingimenti di massa (caso Hirsi, http://www.marinacastellaneta.it/blog/respingimenti-di-massa-verso-la-libia-condanna-allitalia-da-strasburgo.html) e l’adozione di una legislazione, quella sull’immigrazione che ha introdotto il reato di clandestinità salvo poi essere bocciata dalla Corte di giustizia Ue (El Dridi, http://www.marinacastellaneta.it/blog/no-alla-detenzione-di-immigrati-irregolari-nei-casi-di-mancato-rispetto-del-provvedimento-di-allontanamento.html). Un Paese, quindi, l’Italia che non bada più, almeno in molti casi, alla salvaguardia dei diritti e li calpesta con buona pace degli impegni internazionali e dei valori costituzionali.
Nei giorni scorsi una nuova condanna, questa volta da Lussemburgo, che mostra non solo l’incapacità di garantire diritti fondamentali ma anche l’inerzia di fronte ad avvertimenti precisi provenienti da organizzazioni internazionali. L’Italia, in pratica, non fa nulla, facendo passare ulteriore tempo e commettendo ulteriori violazioni. Da ultimo il caso che è costato una condanna per inadempimento dalla Corte di giustizia dell’Unione europea per la legislazione a tutela dei diritti dei disabili. Eppure già dal 2006 la Commissione europea aveva chiesto all’Italia di intervenire per mettersi in regola. Così non è stato e di qui la bocciatura italiana. Con sentenza depositata ieri (causa C-312/11, C-312:11), infatti, la Corte ha accolto il ricorso della Commissione europea e ha accertato l’inadempimento italiano nel recepimento della direttiva 2000/78 del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, attuata in Italia con il decreto legislativo n. 216 del 9 luglio 2003. Questo perché sia nella legislazione di recepimento sia in altri atti normativi non è stato previsto uno specifico obbligo generale di ogni datore di lavoro di adottare misure in grado di consentire a persone disabili di accedere ad un lavoro e di svolgerlo (tra l’altro “sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti”).
La direttiva ammette un’attenuazione dell’obbligo del datore di lavoro nel caso in cui vi sia un onere finanziario sproporzionato che, però, non può essere considerato tale se sono previste misure statali di supporto. Non basta, – precisa la Corte – che lo Stato si limiti a prevedere agevolazioni e supporti ma deve intervenire al fine di consentire il pieno accesso al lavoro delle persone con disabilità. Ora, poiché nella normativa italiana, considerata nel suo complesso, mancano disposizioni in grado di imporre a tutti i datori di lavoro l’adozione “di provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti delle condizioni di lavoro e consentano loro di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione” secondo quanto disposto dall’articolo 5 della direttiva, l’Italia ha violato il diritto dell’Unione.
La Corte ha anche colto l’occasione per specificare la nozione di disabilità. E’ vero, infatti, che la direttiva 2000/78 non fornisce una nozione, ma questa va desunta dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 26 novembre 2009, ratificata dall’Unione europea, in alla quale la nozione di handicap “si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, le quali, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”. L’Italia, invece, ha approfittato della mancata definizione a livello Ue per inserire una nozione restrittiva.
Si vedano i post http://www.marinacastellaneta.it/blog/sulla-nozione-di-disabilita-la-corte-ue-rinvia-alla-convenzione-onu.html e http://www.marinacastellaneta.it/blog/lunione-europea-ratifica-la-convenzione-onu-sui-diritti-delle-persone-disabili.html.
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