Le criticità emerse dalle memorie difensive con riguardo alle condizioni carcerarie in Romania devono essere valutate prima di dare il via libera alla consegna in esecuzione di un mandato di arresto europeo. Non bastano le informazioni arrivate dall’amministrazione penitenziaria del Paese di esecuzione per valutare il pieno rispetto dei diritti fondamentali e, in particolare dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta i trattamenti inumani o degradanti nel Paese nel quale dovrà essere scontata la pena. Lo ha precisato la Corte di Cassazione, sezione feriale penale, con la sentenza n. 33044 depositata il 22 agosto (33044), che ha accolto il ricorso di un cittadino rumeno per il quale era stato dato il via libera alla consegna alla Romania per l’esecuzione di una condanna a dieci anni di reclusione. Ad avviso del ricorrente, i giudici italiani e, in particolare la Corte di appello di Cagliari, non avevano considerato in modo adeguato le condizioni di detenzione in Romania. La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso, ha chiarito i passi da seguire per valutare il rispetto dei diritti umani con riguardo alle condizioni carcerarie in linea con la decisione quadro 2002/584 recante disposizioni in materia di mandato di arresto europeo e di procedure di consegna tra Stati membri (poi modificata dalla n. 2009/299/GAI, recepita con legge n. 69/2005, modificata dal decreto legislativo n. 10 del 2 febbraio 2021). Prima di tutto, dal punto di vista formale, la Corte ha ritenuto violata la decisione quadro nella parte in cui sono state considerate le note informative dell’amministrazione penitenziaria che non è soggetto designato ai sensi della decisione quadro 2002/584 che attribuisce un ruolo unicamente all’amministrazione giudiziaria rumena. Nel caso di rischi di trattamenti inumani o degradanti, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione ha l’obbligo di porre fine alla procedura di consegna se vi è un rischio di tali trattamenti, come precisato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea che ha imposto allo Stato membro di esecuzione di valutare il livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dal diritto dell’Unione e, in particolare dall’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che vieta i trattamenti inumani o degradanti, considerando “elementi oggettivi, attendibili, precisi e debitamente aggiornati in merito alle condizioni di detenzione esistenti nello Stato membro emittente e che dimostrino l’effettiva esistenza di carenze sistemiche o generalizzate, oppure di carenze incidenti su determinati gruppi di persone, od anche riguardanti determinati centri di detenzione”. Per valutare tali elementi, vanno anche considerate le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, le decisioni dello Stato membro emittente, i documenti del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite. La Cassazione riconosce che, nel caso di mandato di arresto esecutivo, nel valutare il trattamento riservato al consegnando taluni “fattori compensativi – costituiti, congiuntamente, dalla breve durata della detenzione, dalle dignitose condizioni carcerarie, dalla sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella mediante lo svolgimento di adeguate attività – possono permettere di superare la presunzione di violazione dell’art. 3 della CEDU derivante dalla disponibilità nella cella collettiva di uno spazio minimo individuale inferiore a tre meri quadrati, solo nel caso in cui il detenuto sia sottoposto al cd. regime ‘semiaperto’ e non anche nel caso in cui il detenuto sia sottoposto al cd. regime ‘chiuso’, come è nel caso di specie”. Gli indicati fattori compensativi, inoltre, dal ragionamento seguito dalla Corte di Cassazione, sembrano venire automaticamente meno tenendo conto che la condanna per la quale era stata disposta la consegna era di dieci anni e, quindi, certamente, non breve. La Suprema Corte ha così accolto il ricorso, annullato la sentenza e rinviato per un nuovo giudizio alla Corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari.
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