Pubblicazioni di fotografie online, senza consenso, creazione di un profilo falso, revenge porn, minacce via social e tracciamento dei movimenti. Un incubo senza fine per una donna che per anni era stata oggetto di cyberviolenza senza che le autorità nazionali russe intervenissero in modo effettivo. Così, alla donna non è rimasto altro che rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Con la sentenza del 14 settembre 2021, nel caso Volodina contro Russia (n.2, ricorso n. 40419/19, CASE OF VOLODINA v. RUSSIA (No. 2), Strasburgo ha dato ragione alla donna e accertato la violazione del diritto al rispetto della vita privata della ricorrente proprio per l’inerzia delle autorità competenti che nulla hanno fatto per proteggerla dai ripetuti casi di cyberviolenza, per di più causando, così, la diffusione di un messaggio di impunità rispetto a questi reati. La donna, dopo la separazione dal suo partner, era stata vittima di violenze fisiche e di stalking; aveva cambiato nome ma, malgrado l’intensificarsi delle violenze anche sul web, le autorità nazionali erano rimaste sostanzialmente inerti. Il caso era stato chiuso. La donna si è rivolta a Strasburgo contestando le autorità russe che non hanno adottato alcuna misura. Inoltre, la donna ha criticato l’assenza di una legislazione specifica sulla cyberviolenza nei confronti delle donne. La Corte europea riconosce che in Russia sono state adottate leggi con meccanismi penali e civili per garantire la tutela della vita privata, ma nel concreto le autorità non hanno fornito alcuna protezione alla donna, se non dopo molto tempo. Eppure – osserva la Corte – la violenza online è direttamente collegata a quella offline e si tratta di un altro aspetto della violenza domestica da trattare con grande attenzione. Gli Stati, inoltre, anche in questo contesto, hanno obblighi positivi e devono intervenire per proteggere le vittime, conducendo indagini effettive. Invece, in questo caso di fronte alla gravità degli atti di cyberviolenza la risposta è stata decisamente inadeguata e ha dato il senso di impunità all’autore degli atti di cyberviolenza, con ciò vanificando l’effetto deterrente rispetto ad altri episodi. Di qui la violazione dell’articolo 8 e la concessione di 7.500 euro alla donna per i danni non patrimoniali subiti.
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