Asilo e cambiamenti climatici: si pronuncia il Comitato Onu – Landmark case on climate change and asylum claims

Per la prima volta, un organo di garanzia internazionale si è occupato di un ricorso di un richiedente asilo che ha avanzato la sua domanda per ragioni climatiche. E’ stato il Comitato dei diritti umani dell’Onu ad occuparsene nelle conclusioni depositate il 7 gennaio 2020 (CCPR/C/127/D/2728/2016, CCPR_C_127_D_2728_2016_31251_E): da un lato, il Comitato ha respinto il ricorso, dall’altro lato, però, l’organo di garanzia fa un balzo in avanti in prospettiva del riconoscimento, tra i possibili motivi idonei a portare all’asilo, delle avverse ed estreme condizioni climatiche presenti in un Paese. Il ricorso era stato presentato da un uomo, proveniente dall’isola di Tarawa, nella Repubblica di Kiribati, l’isola del Pacifico che sta scomparendo a causa dell’innalzamento del livello del mare, il quale, arrivato in Nuova Zelanda con moglie e figli, aveva chiesto asilo. La sua istanza era stata respinta e, con la sua famiglia, il ricorrente era stato espulso, tornando a Kiribati. Così si era rivolto al Comitato dei diritti umani sostenendo che la Nuova Zelanda aveva violato il suo diritto alla vita. A suo avviso, l’innalzamento del livello del mare e gli effetti dei cambiamenti climatici avevano reso il suo Paese, colpito da un grave degrado ambientale che aveva determinato finanche la contaminazione della falda acquifera, inabitabile. Il Comitato ha ritenuto che, nel caso di specie, il ricorrente non corresse un imminente rischio per la propria vita (condizione richiesta per configurare una violazione dell’articolo 6 del Patto, che assicura il diritto alla vita), ma ha affermato che gli Stati sono tenuti a considerare le conseguenze dei cambiamenti climatici, che possono avere effetti sia a lungo termine – è il caso dell’innalzamento dei mari – sia effetti repentini come inondazioni e tempeste. Entrambi gli effetti – scrive il Comitato – possono spingere gli individui ad attraversare le frontiere, abbandonare il proprio Paese e cercare rifugio in altri Stati. Pertanto, per il Comitato è necessario un forte impegno della comunità internazionale perché senza uno sforzo nazionale e internazionale “the effects of climate change in ending States may trigger the non-refoulement obligations of receiving states”, con violazione dei diritti degli esseri umani. Nel caso di specie, per il Comitato, non è stata superata, però, la soglia di pericolo che avrebbe dovuto portare al riconoscimento della violazione del diritto alla vita, con la conseguenza che per l’organo Onu la Nuova Zelanda non ha violato il Patto. Tuttavia, il Comitato apre la strada al possibile accoglimento di altri ricorsi nei casi in cui, ad esempio, un Paese rischi di essere sommerso dal mare, chiarendo che un individuo non può essere espulso se i cambiamenti climatici provocano condizioni incompatibili con il diritto alla vita. Nel suo ragionamento, il Comitato ha tenuto conto delle Osservazioni generali n. 31 adottate il 29 marzo 2004, sulla natura degli obblighi imposti agli Stati parti dal Patto e ha considerato gli obblighi degli Stati nel garantire il diritto alla vita, precisando che il degrado ambientale, così come i cambiamenti climatici costituiscono una delle più gravi minacce per le generazioni presenti e future con riguardo al godimento del diritto alla vita. Detto questo, però, per il Comitato, il ricorrente non ha provato l’imminenza e la gravità del pericolo perché, tenendo conto, ad esempio, che gli effetti dell’innalzamento del livello del mare si verificheranno tra 10/15 anni, è ben possibile che lo Stato di origine adotti le misure necessarie a evitare conseguenze nefaste. Inoltre, le informazioni portate dinanzi al Comitato non sono servite a dimostrare un errore manifesto o un diniego di giustizia. Respinto, così, il ricorso, ma con aperture all’applicazione del Patto nel caso di richieste di asilo dovute a gravi effetti sul clima e sull’ambiente.

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