La Corte europea dei diritti dell’uomo, per la prima volta, si è pronunciata, con la sentenza depositata il 19 novembre, sull’applicazione del diritto alla libertà di riunione ai flash mobs (ricorso n. 58954/09, CASE OF OBOTE v. RUSSIA). Il ricorso a Strasburgo è stato presentato da un cittadino russo che, con altre sei persone, aveva iniziato un flash mob davanti alla sede del Governo russo, a Mosca. Il ricorrente era stato condotto in una caserma della polizia e accusato di aver partecipato a una manifestazione pubblica senza aver notificato in via preliminare, come previsto dalla legge, lo svolgimento dell’evento. All’uomo era stata inflitta una sanzione di 1.000 rubli (22 euro all’epoca dei fatti). Dopo essersi rivolto, inutilmente ai giudici nazionali, ha presentato un ricorso alla Corte europea sostenendo che era stato violato l’articolo 11 della Convenzione che assicura il diritto alla libertà di riunione e di associazione. Strasburgo, in primo luogo, ha ritenuto sussistente l’esistenza di un pregiudizio importante anche perché la questione riguardava importanti questioni di principio. Poi la Corte è partita dalla qualificazione del flash mob considerato come una riunione pacifica. Pertanto, il diritto di partecipare a tali eventi rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 11 della Convenzione e, quindi, le autorità nazionali hanno commesso un’ingerenza nel diritto del ricorrente. Respinte le giustificazioni del Governo russo, secondo il quale l’ingerenza era necessaria per ragioni di ordine pubblico anche perché i giudici nazionali hanno disposto l’ammenda senza considerare eventuali effetti negativi del flash mob. L’automatismo della mancata comunicazione preliminare alle autorità competenti e l’applicazione dell’ammenda è per la Corte contraria alla Convenzione europea perché le autorità nazionali devono dare prova di una certa tolleranza per le manifestazioni non violente. Un evento con sole sette persone che manifestano con la bocca chiusa da nastro adesivo e brandendo un foglio di carta bianco non può essere qualificato come un evento che incita alla violenza o come una minaccia all’ordine pubblico. L’ingerenza, quindi, non era necessaria in una società democratica. La Corte, inoltre, ha stabilito che, sul piano interno, la sanzione era qualificata come amministrativa ma, in base ai criteri già stabiliti dalla Corte e, in forza della finalità punitiva, era da considerare come penale, con la conseguenza che avrebbe dovuto essere applicata solo in caso di situazioni particolari. Di qui la condanna alla Russia per violazione dell’articolo 11 e la concessione al ricorrente di un indennizzo di 4mila euro.
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