La CEDU deposita il primo parere in attuazione del Protocollo n. 16 – ECHR: first advisory opinion under the Protocol no. 16

La madre non biologica che ha fatto ricorso alla maternità surrogata all’estero ha diritto a riconoscere il figlio se ha ottenuto un certificato legale che la indica come madre nel Paese in cui la gestazione “in affitto” ha avuto luogo. Questo perché l’interesse superiore del minore e il suo diritto ad avere entrambi i genitori prevalgono sui divieti nazionali che proibiscono sul territorio dello Stato la maternità surrogata. E’ la Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo nel parere reso ieri dalla Grande Camera (Advisory opinion). Si tratta del primo provvedimento adottato in base al Protocollo n. 16 in vigore dal 1° agosto 2018 per 10 Stati membri (l’Italia manca ancora all’appello), che permette alle più alte giurisdizioni nazionali di rivolgersi alla Grande Camera della Corte europea per un parere su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli. Un meccanismo che si avvicina, pur con alcune differenze, al sistema di rinvio pregiudiziale previsto nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, anche se il parere fornito dalla Grande Camera non è vincolante a differenze della sentenze della Corte Ue. A chiedere l’intervento di Strasburgo è stata la Corte di Cassazione francese, nella sua composizione plenaria (Arrêt n° 638 du 5 octobre 2018 (10-19.053) -Cour de cassation – Assemblée plénière – ECLI:FR:CCASS:2018:AP00638 | Cour de cassation). Con sentenza n. 638 del 5 ottobre (10-19-053), la Cassazione, nella famosa vicenda Mennesson, ha sospeso il procedimento nazionale e ha chiesto alla Corte di Strasburgo di chiarire se rientri nel margine di apprezzamento delle autorità nazionali il rifiuto di trascrivere nei registri dello stato civile un atto di nascita riguardante un bambino nato all’estero da maternità surrogata che designi come madre quella non biologica e come padre quello biologico e se sia possibile utilizzare l’adozione piuttosto che la trascrizione nei registri di stato civile dell’atto di nascita ottenuto negli Stati Uniti. Per la Grande Camera, che ha risposto alla questione al centro del quesito occupandosi così unicamente della maternità surrogata nella quale il padre ha un legame biologico con il figlio, gli Stati sono tenuti a garantire il riconoscimento legale del rapporto tra madre legale e figlio nato da maternità surrogata all’estero nei casi in cui questo legame sia stato riconosciuto nel Paese di gestazione. Il no assoluto al riconoscimento è così incompatibile con l’interesse superiore del minore per accertare il quale è necessario procedere a una valutazione sul diritto a crescere in un ambiente stabile, ad ottenere l’individuazione dei soggetti responsabili della crescita, nonché le esigenze del minore. E’ vero che, in ragione dell’assenza di consenso e di convergenza tra gli Stati questi ultimi hanno un ampio margine di apprezzamento, ma questo si riduce laddove siano in gioco questioni legate all’identità individuale nonché ai rapporti genitori/figli. Di qui la conclusione della Grande Camera sulla necessità che gli Stati prevedano, pur nella libertà di scelta circa le modalità, il riconoscimento di un legame genitore/figlio con la madre non biologica, indicata nel certificato di nascita acquisito all’estero. Detto questo, però, la Corte osserva che gli Stati possono prevedere altri meccanismi come il ricorso all’adozione a patto che, in conformità con il principio dell’interesse superiore del minore, l’adozione avvenga rapidamente. Questo perché – scrive la Corte – l’articolo 8, che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare, non obbliga gli Stati a stabilire il riconoscimento ab initio.

Si veda il post http://www.marinacastellaneta.it/blog/maternita-surrogata-e-trascrizione-necessario-assicurare-i-diritti-del-minore.html

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