Gli Stati hanno il diritto di reprimere gli atti di violenza domestica anche se la vittima diretta intende riprendere i rapporti con l’autore del reato. Di conseguenza, un provvedimento di allontanamento deciso dalle autorità nazionali prevale sulla scelta della vittima di riallacciare i legami con l’ex aguzzino. Questo perché il potere repressivo non tutela unicamente gli interessi della vittima, ma dell’intera collettività. Lo ha chiarito la Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza del 15 settembre 2011 relativa alle cause riunite C-483/09 e C-1/10 (09). Chiamata a intervenire in via pregiudiziale dai giudici spagnoli sulla decisione quadro del 15 marzo 2001, 2001/220/GAI sulla posizione della vittima nel procedimento penale, la Corte ha precisato che tale atto consente di prevedere una sanzione obbligatoria di allontanamento nei confronti di autori di violenze in ambito familiare “anche quando le relative vittime contestano l’applicazione della sanzione stessa”. Un’interpretazione che apre la strada a un intervento più incisivo delle autorità giudiziarie soprattutto in casi di violenza domestica e stalking, in cui la vittima può subire una sudditanza anche psicologica ed essere convinta a riallacciare i rapporti con l’autore delle violenze. Con quest’obiettivo, poi, la Corte Ue ritiene del tutto compatibile con il diritto Ue la scelta degli Stati di escludere la mediazione dai procedimenti penali relativi a questi reati.
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