Ancora una volta, arriva da Strasburgo un verdetto a tutela della libertà di stampa. Con la sentenza Hlynsdottir CASE OF ERLA HLYNSDOTTIR v. ICELAND No. 3, depositata il 2 giugno, la Corte europea ha stabilito che il giornalista che riporta una vicenda giudiziaria di interesse generale, riproducendo passi dell’atto di accusa, senza ricordare espressamente, per la frase contestata, che essa proviene dal documento degli inquirenti, non commette diffamazione. Di conseguenza, se è condannato a seguito dell’assoluzione della persona citata nell’articolo, scritto nel rispetto delle regole deontologiche, è certa la violazione dell’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo che assicura il diritto alla libertà di espressione. A rivolgersi a Strasburgo è stata una giornalista che aveva riportato l’indagine nei confronti di un uomo accusato di traffico di cocaina. L’articolo era corredato dalla fotografia e dal titolo che lo indicava come trafficante. Dopo l’assoluzione, l’uomo aveva agito contro la giornalista che era stata condannata per diffamazione, insieme all’editore. La donna aveva versato, come sanzione, 450 euro, facendo poi ricorso a Strasburgo. Che le ha dato ragione, non solo accertando la violazione della Convenzione da parte dell’Islanda perché i procedimenti nazionali non hanno seguito gli standard di Strasburgo in materia di libertà di stampa, ma anche disponendo una riparazione per i danni materiali pari alla somma che la donna aveva dovuto versare a titolo di sanzione e un indennizzo di 4mila euro per lo stress e la frustrazione che la giornalista aveva subito a seguito del procedimento nei suoi confronti. Per la Corte europea, la condanna della reporter non era necessaria in una società democratica perché la giornalista aveva riportato una questione giudiziaria di interesse generale, agendo in modo conforme ai doveri e alle responsabilità dei giornalisti. Nel valutare il comportamento del giornalista le autorità nazionali devono considerare l’articolo nel suo insieme, mentre non ha nessun rilievo l’assoluzione del presunto diffamato dopo la pubblicazione. Leggendo l’articolo – osserva la Corte – era evidente che il procedimento era ancora in corso e che non vi era stata una condanna. Inoltre, spetta solo al giornalista stabilire se, nel riportare frasi dell’atto di accusa, sia necessario indicare in modo espresso l’atto e utilizzare ulteriori precauzioni, ad esempio ricordando al lettore che si tratta unicamente di affermazioni provenienti dagli inquirenti. D’altra parte, rispetto alla frase contestata, poche righe prima era stato citato l’atto di accusa e la richiesta di condanna presentata dal Procuratore.
A ciò si aggiunga che proprio l’impiego dell’atto di accusa come base dell’articolo fa sì che non sia necessario svolgere ulteriori verifiche sulle dichiarazioni di fatto in esso contenute posto che la fonte è chiaramente identificata. Di qui la contrarietà della condanna della giornalista alla Convenzione, tanto più che la reporter è stata sanzionata anche per il titolo del quale non era responsabile.
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