Diserzione, rischio di crimini di guerra e richiesta di asilo: la Corte Ue fissa i parametri di valutazione

La Corte di giustizia dell’Unione europea, nella sentenza Shepherd del 26 febbraio (causa C-472/13, shepherd), ha chiarito a quali condizioni gli Stati membri sono tenuti a concedere l’asilo ai cittadini di Paesi terzi che disertano per  il rischio di essere coinvolti in crimini di guerra, risolvendo alcuni quesiti interpretativi posti dal Tribunale amministrativo di Monaco di Baviera. La vicenda riguardava un soldato americano che aveva chiesto asilo in Germania. Il militare, di stanza in Germania, aveva ricevuto un ordine di missione per l’Iraq ma, essendo già stato in missione a Tikrit nel 2004, aveva deciso di non partire e aveva presentato domanda di asilo in ragione del fatto che la diserzione costituiva un reato molto grave negli Stati Uniti. L’Ufficio federale tedesco competente in materia di immigrazione e rifugiati aveva respinto la richiesta. Il Tribunale amministrativo di Monaco ha chiesto alla Corte di giustizia di chiarire la portata di alcune disposizioni della direttiva 2004/83/Ce del 29 aprile 2004 sulla qualifica di rifugiato (recepita in Italia con Dlgs 251/2007) e, in particolare, dell’art. 9 che considera come atti di persecuzione, tra gli altri, le “e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2”. Chiarito che la direttiva deve essere interpretata nel rispetto della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 sullo status di rifugiato (ratificata dall’Italia con legge 24 luglio 1954 n. 722) e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la Corte di giustizia ha precisato che, affinché si possa ipotizzare la sussistenza di una persecuzione, è necessario che venga raggiunto un determinato livello di gravità che va accertato nel momento in cui viene adottata la decisione, tenendo conto di tutti i fatti pertinenti relativi al Paese di origine.

Sotto il profilo soggettivo, la Corte Ue esclude un’interpretazione restrittiva precisando che la norma indicata si estende a tutto il personale militare “incluso quello di sostegno logistico o tecnico”. Né, ai fini dell’esclusione della protezione di cui all’art. 9, rileva che, sulla base dei criteri rilevanti per la Corte penale internazionale, in ragione della partecipazione indiretta alle ostilità, il disertore non potrebbe essere considerato autore dei crimini.

Detto questo, però, non va dimenticato che l’obiettivo della direttiva è tutelare coloro che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale, con la conseguenza che la qualità di personale militare è una condizione necessaria ma non sufficiente per potersi avvalere dell’art. 9, par. 2, lettera e). La situazione, quindi, va verificata con specifico riferimento a un determinato conflitto, senza che assuma rango primario la circostanza che, in passato, l’unità del richiedente o altri membri siano stati ritenuti autori di crimini, malgrado – osserva la Corte di Lussemburgo – ciò possa costituire uno degli indizi. La Corte passa poi a indicare gli elementi che i giudizi nazionali devono prendere in considerazione al fine di verificare se la realizzazione dei crimini sia plausibile o no. Per i giudici Ue, la circostanza che l’intervento militare avvenga sotto la bandiera Onu o con il consenso internazionale prova, ”in linea di principio”, che sussistono garanzie che non saranno commessi crimini di guerra, anche se – osserva la Corte – non può essere escluso “che nell’ambito delle operazioni di guerra siano commessi atti contrari ai principi stessi della Carta delle Nazioni Unite”. Rilevante, altresì, che nell’ordinamento dello Stato di origine del richiedente sia prevista la punizione per gli autori di crimini di guerra.

Ultima considerazione il comportamento del richiedente che, nel caso di specie, dopo essere andato in Iraq la prima volta, aveva prorogato il servizio. Questo spinge la Corte a concludere che se il richiedente lo status di rifugiato non ricorre alla procedura per avvalersi dell’obiezione di coscienza non può godere della protezione di cui all’art. 9, a meno che non dimostri “di non aver potuto disporre, nella sua situazione concreta, di nessuna procedura siffatta”.

Per quanto riguarda le misure delle quali il richiedente sarebbe destinatario, la Corte precisa che, per ottenere la protezione internazionale, è necessario un determinato livello di gravità e che, quindi, si verifichi una violazione dei diritti fondamentali tale da essere valutata come una persecuzione ai sensi della Convenzione di Ginevra. Pertanto, il giudice nazionale deve verificare se le azioni giudiziarie e le sanzioni in cui potrebbe incorrere il ricorrente siano sproporzionate, cosa che alla Corte non sembra.

 

 

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