Non è una pratica abusiva e non costituisce, quindi, abuso del diritto, il comportamento di un cittadino che si reca in un altro Stato membro per ottenere una qualifica professionale e poi torna in patria per esercitare la professione con il titolo acquisito all’estero. Un principio chiaro che non ammette fughe nell’applicazione e non lascia spazio al fraintendimento. Lo ha fissato la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza depositata il 17 luglio (cause riunite C-58/13 e C-59/13, Torresi, C-58:13), che apre la strada a un obbligatorio cambiamento nelle prassi interne relative alle istanze di iscrizione nella sezione speciale dell’Albo degli avvocati dedicata a quelli stabiliti e, soprattutto degli abogados, con effetti che in realtà potrebbero andare anche al di là del caso dei legali, coinvolgendo tutti i professionisti interessati ad ottenere la qualifica in uno Stato membro diverso da quello della cittadinanza o in cui hanno ottenuto il diploma di laurea, per poi iscriversi in un albo ed esercitare in Italia. La pronuncia della Corte è stata la conseguenza del rinvio pregiudiziale del Consiglio nazionale forense. Due cittadini italiani, conseguita la laurea in giurisprudenza in Italia, avevano ottenuto il diploma anche in Spagna ed erano stati iscritti, nel 2011, nell’albo degli abogados di Santa Cruz de Tenerife. Nel 2012 avevano presentato una domanda di iscrizione nell’albo speciale degli avvocati stabiliti di Macerata. Il Consiglio dell’ordine di Macerata non aveva risposto all’istanza nel termine di 30 giorni. Così, i richiedenti si erano rivolti al Consiglio nazionale forense che, avendo dubbi sull’interpretazione dell’articolo 3 della direttiva 98/5/Ce sull’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica, recepita in Italia con il Dlgs n. 96 del 2 febbraio 2001, ha deciso di sospendere il procedimento e chiamare in aiuto, con un’ordinanza di rinvio pregiudiziale d’interpretazione e di validità, la Corte di giustizia dell’Unione europea. Stabilito che il Consiglio nazionale forense può essere considerato come un organo giurisdizionale ai sensi dell’articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la Corte di giustizia è passata all’intepretazione della direttiva che ha l’obiettivo di facilitare l’esercizio della professione di avvocato in modo permanente, in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica. Il richiedente è tenuto a presentare il documento che provi l’iscrizione nello Stato di origine. In questa situazione, l’autorità competente dello Stato membro ospitante è tenuta a procedere all’iscrizione dell’avvocato. Rispetto ai poteri dello Stato ospitante, la direttiva ha cura di precisare che l’autorità competente può richiedere che il documento “non sia stato rilasciato prima dei tre mesi precedenti la sua presentazione. Essa dà comunicazione dell’iscrizione all’autorità competente dello Stato membro di origine”. Nel caso di specie, tuttavia, il Consiglio nazionale forense riteneva inutilizzabile l’articolo 3 perché i due richiedenti avrebbero usato le norme dell’Unione in modo abusivo, per sottrarsi all’applicazione della normativa italiana sull’accesso alla professione forense. Un’obiezione non condivisa dalla Corte di Lussemburgo.
Ed invero, per poter invocare l’abuso del diritto e limitare di conseguenza l’utilizzo della libertà di circolazione, è necessario accertare la presenza di un elemento soggettivo e di uno oggettivo. Con riguardo a quest’ultimo punto, ad avviso della Corte, “deve risultare da un insieme di circostanze oggettive che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non è stato raggiunto” (par. 45). Per la Corte di giustizia così non è stato nel caso di specie. La direttiva, come detto, si prefigge di facilitare il diritto di stabilimento nello spazio Ue e, in particolare, in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata conseguita la qualifica professionale in linea con la realizzazione di una libertà fondamentale del Trattato quale la libera circolazione. Dal ragionamento della Corte è evidente, così, che ha scarso rilievo il fatto che la domanda proveniva da un cittadino italiano, laureatosi in Italia e poi tornato in patria, dopo una sosta in Spagna per acquisire il titolo, proprio perché il titolo professionale era stato conseguito in uno Stato diverso da quello ospitante, secondo quanto previsto dalla direttiva.
Manca, inoltre, per configurare l’abuso del diritto, l’elemento soggettivo, in base al quale “deve risultare che sussiste una volontà di ottenere un vantaggio indebito derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento” (par. 46). Quest’aspetto non è stato dimostrato e il vantaggio conseguito è insito nella direttiva. E questo, per la Corte, anche se non si tratta di cittadini di altri Stati membri. La stessa direttiva – osserva la Corte – prevede il diritto di recarsi in uno Stato membro e ottenere la qualifica e poi tornare nello Stato membro di cui il richiedente è cittadino per esercitare la professione. Inoltre, con una conclusione che sarà certo determinante per l’analisi della pratiche dei richiedenti, la Corte dice chiaramente, bloccando la strada a possibili letture restrittive della pronuncia, che se il cittadino di uno Stato membro sceglie di acquisire il titolo professionale in un altro Paese membro, diverso da quello in cui risiede, per beneficiare di una normativa a lui più favorevole, ciò “non consente, di per sé, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 91 e 92 delle conclusioni, di concludere nel senso della sussistenza di un abuso del diritto”.
Non ha convinto la Corte Ue neanche la seconda tesi propugnata dal Consiglio nazionale forense secondo il quale l’articolo 3, applicabile in Italia sin dal 2001, data di recepimento dell’atto Ue, sarebbe invalido perché in contrasto con l’articolo 4, par. 3 del Trattato di Lisbona, in base al quale l’Unione deve rispettare l’identità nazionale degli Stati membri, insita nella struttura fondamentale, politica e costituzionale. Sul punto, malgrado l’articolo 33 della Costituzione italiana richieda l’esame di stato per l’accesso alla professione di avvocato, Lussemburgo non ha nessun dubbio nel ridimensionare il valore delle norme che si occupano, seppure nella costituzione, di accesso alle professioni, che certo non incidono “sulle strutture fondamentali, politiche e costituzionali né sulle funzioni essenziali dello Stato membro di origine”. Gli Stati, osserva la Corte, sono liberi di prevedere un esame di Stato per l’accesso a una professione liberale e anche di regolare detto esame in autonomia, nell’esercizio di un potere che non è limitato dal diritto dell’Unione. Tuttavia, detto questo, gli Stati membri non possono bloccare la circolazione dei titoli professionali e, quindi, l’accesso alle professioni in modo stabile in uno Stato membro diverso da quello di origine per il solo fatto che altri Stati hanno altre regole di accesso. Questo comporta l’eliminazione dell’utilizzo, come parametro universale e insostituibile, delle regole nazionali di accesso alla professione.
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